Interventismo statale e industrializzazione di guerra per il Sud degli USA

(di Leonardo Chiti)
05/08/16

Nel 1865 il Sud esce distrutto dalla guerra civile americana e nei successivi 70 anni rimarrà ai margini del processo di ascesa degli Stati Uniti al rango di prima potenza mondiale, fino alla realizzazione delle grandi opere infrastrutturali del New Deal che ne innescheranno l’industrializzazione avviando così un percorso che porterà quest’area regionale a diventare una delle più importanti del mondo per l’industria aeronautica e aerospaziale.

Il fulcro su cui negli anni ’30 venne impostato il piano di sviluppo del governo guidato da Franklin Delano Roosevelt era costituito dalla sfida dell’elettrificazione degli USA che venne condotta come una vera e propria campagna militare rispolverando la retorica di mobilitazione e gli strumenti istituzionali della prima guerra mondiale.

Il “ritardo elettrico” delle aree rurali e in particolare del Sud veniva indicato come il principale nemico interno contro cui combattere se si voleva far uscire la nazione dalla Grande Depressione in cui era precipitata con la crisi del ’29. Nonostante il fatto che nel confronto internazionale gli Stati Uniti risultassero il Paese più elettrificato del mondo, nel 1930 solo il 30% delle famiglie americane aveva accesso all’elettricità e i benefici legati ad una copertura completa della rete di fornitura erano appannaggio dei soli grandi centri urbani.

Tra i vari enti creati dall’amministrazione Roosevelt, quello che ottenne i risultati di maggior rilievo fu senza dubbio la Tennessee Valley Authority, istituita nel 1933 come public corporation, forma societaria ideata nel 1917, durante la presidenza di Woodrow Wilson, per favorire la gestione governativa dell’industria degli armamenti. Questa formula identificava una compagnia con struttura proprietaria ibrida, nata con lo scopo di aggirare quanto stabilito nella Costituzione e in una serie di leggi che vietavano allo stato di impegnarsi come imprenditore in attività economiche.

Il conseguimento dell’obiettivo di un’elettrificazione realmente diffusa a livello nazionale e che arrivasse il più possibile in profondità nella stratificazione sociale, non poteva non far leva sul potenziale idroelettrico offerto dai fiumi americani. Tutto ciò nella cornice di un progetto che nel suo complesso mirava ad inserire a pieno titolo il Sud, sia nel quadro economico che nello scenario politico del Paese.

Proprio come il recupero delle paludi pontine era diventato il pezzo forte della “bonifica integrale”, la TVA fu il grande emblema dell’aspirazione del New Deal a realizzare uno sviluppo regionale integrato. L’Authority non si limitava ad occuparsi di un unico settore (costruzione di abitazioni, trasporto, agricoltura o industria) ma li coordinava tutti all’interno di una strategia coerente. […] La diga rappresentava un potere capace di domare e di civilizzare, che aveva trasformato la naturale potenza devastante dell’acqua in energia utilizzabile, […] Non sorprende quindi che la diga sia diventata l’emblema centrale del New Deal (Wolfgang Schivelbusch “3 New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, 1933-1939”, Tropea Editore, 2008).

L’altro ben noto pilastro su cui poggerà lo sviluppo industriale del Sud è costituito da un sottosuolo ricco di idrocarburi (soprattutto in Texas e Louisiana), come dimostrerà la scoperta nel 1930, nei pressi di Dallas, di uno dei più grandi giacimenti di oro nero degli Stati Uniti.

Con la costruzione di una rete di oleodotti il petrolio del Sud verrà messo in condizione di alimentare le regioni industriali del Midwest e del Nord-Est, sviluppando allo stesso tempo l’industria locale, soprattutto nei settori della chimica e della meccanica (attrezzature per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi).

Le prime installazioni aeronautiche, nelle aree circostanti alle città di Dallas e Wichita (in Kansas, poco più a nord nella parte meridionale del Midwest), risalgono agli anni ’20 e ’30, ma il salto dimensionale decisivo per questo comparto arriverà nel decennio successivo, a seguito dei forti incrementi produttivi necessari a supportare l’impegno statunitense nella seconda guerra mondiale, inizialmente come “arsenale degli alleati”, e successivamente all’attacco di Pearl Harbor (7 dicembre 1941), con un pieno coinvolgimento nelle operazioni belliche.

L’elettrificazione realizzata con il New Deal e l’avvio dello sfruttamento del petrolio e del gas naturale, avevano gettato le basi per l’industrializzazione del Sud ma la grande industria della regione nasce con la mobilitazione di guerra, soprattutto nel settore aeronautico che vedrà alcuni importanti costruttori trasferire qui i propri impianti o aprirne di nuovi.

Fra questi figura la North American Aviation che realizzerà l’addestratore AT-6 (inizialmente designato NA-16 che divenne T-6 dopo la guerra), battezzato Texan in quanto per la sua produzione venne costruito un nuovo stabilimento a Dallas. Il velivolo si presentava con una struttura metallica monoplano con abitacolo in tandem ed effettuò il primo volo nell’aprile 1935 facendosi subito apprezzare dall’esercito americano che ne ordinò un primo lotto di 42 esemplari.

La produzione crebbe rapidamente con l’approssimarsi e poi con lo scoppio della seconda guerra mondiale. La fine del conflitto non significò il pensionamento per il Texan che anzi si diffuse a livello internazionale venendo acquisito dalle aeronautiche militari di oltre 60 Paesi schierati con il blocco occidentale. Alcuni lo hanno utilizzato fino agli anni ’80 e si stima che ne siano stati prodotti più di 21.000 esemplari.

Durante la guerra la NAA apportò il proprio contributo alle operazioni di bombardamento e attacco al suolo condotte dall’USAAF, con la costruzione del bimotore medio-leggero B-25 Mitchell che andò ad affiancare in questo ruolo il Martin B-26 Marauder e i Douglas A-20 Havoc e A-26 Invader.

Il B-25 è stato prodotto in varie versioni anche per uso imbarcato, come in occasione della missione di bombardamento su Tokyo del 18 aprile 1942, a cui parteciparono 16 velivoli di questo tipo che, opportunamente alleggeriti, decollarono dalla portaerei USS Hornet.

Alla North American si deve anche il più famoso e il migliore in assoluto dei caccia della US Army Air Force (denominazione adottata dal 1942 dall’Air Corps, sempre all’interno dell’esercito), il P-51 Mustang, progettato nella primavera del 1940 per fornire alla Gran Bretagna un efficace mezzo aereo di contrasto alle offensive tedesche.

Il risultato fu un velivolo con ala a profilo laminare che poteva vantare prestazioni molto buone a bassa quota ma tendenti a un notevole peggioramento man mano che si saliva. Per questo gli inglesi lo impiegarono – dall’aprile del 1942 – come ricognitore e assaltatore, mettendo allo stesso tempo in programma, di concerto con il costruttore americano, una serie di miglioramenti.

La versione più avanzata, P-51D, apparve all’inizio del 1944, dotata di un nuovo tettuccio a goccia (che già in precedenza aveva sostituito il vecchio tipo con gobba dorsale), e di una fusoliera dalle dimensioni ridotte. Il Mustang grazie all’ausilio di due serbatoi subalari sganciabili si distinse come caccia di scorta potendo accompagnare i bombardieri sino agli obiettivi nel cuore della Germania.

La sua velocità massima, che toccava i 703 km/h, ne faceva il caccia ad elica più veloce del mondo con il quale i più abili piloti dell’USAAF erano in grado di tenere testa persino al Messerschmitt 262, il primo caccia a reazione della storia a essere impiegato in combattimento (penalizzato nei tempi e modi della sua realizzazione da una serie di decisioni, o meglio indecisioni, di Hitler), di cui riuscirono a distruggere diversi esemplari in alcune operazioni facendo ricorso a tattiche di attacco studiate per sorprendere le squadriglie tedesche al suolo o in fase di decollo.

La produzione del Mustang ha superato i 15.400 esemplari ed è stato utilizzato da più di 50 Paesi fino agli anni Sessanta, periodo che lo ha visto partecipare a numerosi conflitti del dopoguerra fra cui quello che ha interessato la penisola coreana, scoppiato il 25 giugno 1950 con l’invasione della Corea del Sud, che era una sorta di protettorato americano, da parte dell’esercito del Nord filosovietico.

Durante la guerra di Corea è andato in scena - l’8 novembre 1950 - il primo combattimento tra jet della storia che vide protagonisti l’americano Lockheed F-80 (P-80 fino al 1948) Shooting Star, e il sovietico MIG-15 (Fagot, secondo la denominazione convenzionale della NATO). Nonostante il fatto che, grazie alla superiore abilità del tenente pilota Russell Brown, sia stato il primo a spuntarla, i vertici militari americani si resero conto che i modelli in servizio non erano in grado di reggere il confronto con il MIG-15.

Così si decise di inviare sul teatro coreano il velivolo più avanzato fra quelli allora in forza all’US Air Force (divenuta Arma pienamente autonoma dal 1947), il North American F-86 Sabre, le cui origini progettuali risalivano al 1944 con l’identificazione NA-134, in riferimento ad un velivolo sperimentale da caccia per la marina che la US Navy rinominò XFJ-1 Fury.

Il volo del prototipo venne effettuato all’inizio di ottobre del 1947 e nel febbraio del 1949 l’F-86 entrò in servizio con l’USAF per essere poi schierato in Corea dal dicembre del 1950, con inquadramento nel 4th Fighter Interceptor Wing. Qui il Sabre mise fine alla supremazia dei MIG-15 ribaltando a favore degli alleati (in particolare degli americani che pesavano per il 93% della componente aerea delle forze con mandato ONU), il numero di vittorie nei duelli tra velivoli da caccia.

Dal punto di vista tecnico l’F-86 e il MIG-15 segnano l’introduzione dell’ala a freccia che consentì un salto di qualità notevole (pur non mancando alcuni contro), rispetto ai precedenti modelli con ala dritta. Questo tipo di modifica rappresentava una delle tante dimostrazioni pratiche dei vantaggi tecnologici che USA e URSS riuscirono a concretizzare (se non altro in tempi ridotti), grazie al “bottino di guerra”, dato che l’innovativa ala a freccia di 35 gradi era frutto dell’acquisizione delle avanzate ricerche condotte in proposito da tecnici e ingegneri della Germania nazista.

Le qualità sfoggiate dal Sabre in Corea ne garantirono il successo commerciale, con la realizzazione, considerando tutte le versioni e le produzioni su licenza, di circa 9.800 esemplari, con annessa utilizzazione da parte delle forze aeree di oltre 30 Paesi, che in alcuni casi lo mantennero in servizio fino agli anni ’80.

Il diretto successore dell’F-86 è stato l’F-100 Super Sabre, il primo della famosa Century Series, formata da ben sei velivoli che effettuarono il loro esordio in volo tra il 1953 e il 1956. Il prototipo del Super Sabre aveva un’ala a freccia di 45 gradi e fu il primo velivolo per impiego operativo in grado di superare Mach 1 in volo orizzontale.

I primi esemplari di serie, F-100A, arrivarono ai reparti nel settembre del 1954 ma a seguito di qualche incidente di troppo causato dall’accoppiamento inerziale in rollio, i suoi voli vennero sospesi per il tempo richiesto dalle necessarie modifiche. L’ultima versione, F-100F, venne utilizzata in Vietnam dove si fece valere soprattutto in azioni di soppressione delle difese aeree nemiche. La produzione totale del Super Sabre ha sfiorato le 2.300 unità.

Benché si tratti di modelli molto noti, per la cronaca gli altri membri del club della Serie Cento sono: Convair F-102 Delta Dagger (primo volo effettuato il 24 ottobre 1953), Lockheed F-104 Starfighter (7 febbraio 1954), McDonnell F-101 Voodoo (29 settembre 1954), Republic F-105 Thunderchief (22 ottobre 1955), Convair F-106 Delta Dart (26 dicembre 1956).

Nel marzo del 1968 la NAA si fuse con la Rockwell-Standard, per formare la North American Rockwell che adottò poi la denominazione di Rockwell International. Nel dicembre 1996 la Boeing ne ha acquisito le divisioni difesa e spazio, fra cui la North American Aviation Autonetics e la Rocketdyne, con successiva cessione di quest’ultima alla UTC Pratt & Whitney (l’attuale United Technologies), nel 2005.

Un altro nome illustre dell’industria aeronautica texana è quello della Vought di Dallas, dove si trasferì nel 1949, dietro richiesta dei vertici militari che ritenevano eccessiva, e quindi un facile bersaglio in caso di guerra (contro l’URSS ovviamente), la concentrazione nella costa orientale, di impianti industriali legati alla difesa.

Questa azienda nel 1938 aveva avviato il progetto che darà alla luce l’F-4U Corsair, un caccia imbarcato il cui prototipo volò il 29 maggio 1940. Questo aereo fu il primo a infrangere la barriera delle 400 miglia orarie (circa 640 km/h), in volo orizzontale, ma le modifiche che si resero necessarie per la prima versione resero problematico l’uso imbarcato.

Così venne inizialmente assegnato ai Marines che lo impiegavano da basi terrestri, finché nell’aprile del 1944 fu dichiarato operativo su portaerei. Nei diversi ruoli in cui venne impiegato il Corsair si rivelò eccellente e si è continuato a produrlo fino al 1952, per un totale di circa 12.500 esemplari.

Dell’album di famiglia Vought fa parte quello che è considerato il primo vero “supercaccia” della Marina americana, l’F-8 Crusader, che effettuò il primo volo il 25 marzo 1955. Nello stesso mese del 1957 entrarono in servizio i primi velivoli di serie con la caratteristica ala a freccia con calettamento variabile che, grazie all’aumento automatico dell’incidenza, permetteva di ottenere maggiore portanza alle basse velocità, riducendo la necessità per il pilota di far cabrare il velivolo nelle fasi di decollo e appontaggio.

Questo caccia supersonico progettato per le attività di superiorità aerea, si è dimostrato all’altezza delle aspettative durante il suo impiego operativo nella guerra del Vietnam e ne sono stati costruiti in tutto 1259. Fra le varie versioni, la RF-8G da ricognizione, ha continuato a volare fino all’inizio degli anni ’80 ma il record di longevità di questo modello va alle unità dell’aeronautica Filippina che continueranno l’attività per circa un ulteriore ventennio.

Il 27 settembre 1965 ha fatto il suo debutto nei cieli l’A-7 Corsair II, la cui versione A entrerà in servizio l’anno seguente. Si trattava di un velivolo ispirato alle linee generali del Crusader ma con importanti differenze essendo una macchina subsonica con fusoliera ingrandita ed equipaggiata – in particolare il modello A-7E - con il sistema di navigazione e attacco NWDS (Navigation Weapon Delivery System), dotazione che rappresentava lo stato dell’arte per i cacciabombardieri dell’epoca.

Nel 1967 il Corsair II fece la sua comparsa in Vietnam con l’assegnazione al reparto VA-147 imbarcato sulla portaerei USS Ranger. Durante la sua attività nel teatro indocinese l’A-7 si dimostrò capace di portare una notevole varietà e quantità di armamento e di sganciarla con precisione a distanze ragguardevoli. Anche questo aereo venne realizzato in diverse versioni per una pluralità di utilizzi, fra cui l’addestramento, raggiungendo i 1.526 esemplari assemblati.

Con l’acquisizione portata a termine da James Ling, nel 1962, l’azienda di Dallas prende il nome di Ling-Temco-Vought e dopo una serie di passaggi di mano e riassetti organizzativi, nel 2010 entra a far parte del gruppo di forniture aeronautiche Triumph Aerostructures, a seguito della cessione da parte del fondo Carlyle al Triumph Group.

L’industrializzazione del Sud è una storia dove interventismo statale e cicli di riarmo hanno svolto un ruolo cruciale nel processo di sviluppo di un’area regionale in cui la combinazione tra iniziativa privata e investimento pubblico è da sempre un tratto costante. Questo aspetto viene solitamente trattato con stupore da chi è abituato a osservare gli Stati Uniti dalla visuale ingannevole dell’ideologia liberista.

Secondo gli alfieri del laissez-faire la condizione di libero scambio nel commercio, locale o internazionale, e la spontanea iniziativa privata, rappresentano la regola, mentre l’intervento statale in economia e il protezionismo sarebbero strumenti d’eccezione, al massimo da tollerare a malincuore, in quanto indispensabili nella (sola) fase iniziale dello sviluppo economico di un Paese.

Eppure come sottolinea Vera Zamagni: da un’analisi storico-comparativa emerge che il primo e forse il più vecchio dei pregiudizi è che il protezionismo sia una eccezione nella storia delle politiche commerciali, di fatto accade proprio il contrario: il liberismo costituisce l’eccezione e il protezionismo la regola. […] i problemi prodotti nelle società capitalistiche dall’industrializzazione […] reclamano ancora altri interventi pubblici, diversi nella loro natura, ma anche nel loro peso relativo, a seconda che l’iniziativa privata si riveli in grado di assumersi la soluzione di una parte maggiore o minore di tali problemi (“Dalla periferia al centro”, il Mulino, 1990).

Protezionismo e statalismo non sono patologie temporanee o fenomeni occasionali che riguardano casi sporadici di particolare arretratezza ma, al contrario, sono contrassegni costanti nella politica economica degli stati moderni. I diversi dosaggi con cui si combinano con liberismo e iniziativa privata non sono determinati dal confronto tra scuole di pensiero ma dalla dinamica ineguale del ciclo economico dei vari Paesi, le cui imprese devono affrontare la concorrenza internazionale.

Il liberismo è la teoria del più forte, o comunque di chi in particolari condizioni trae vantaggio dal libero scambio (come gli stati che daranno vita alla Confederazione), tanto è vero che nella storia, in più di un’occasione, determinati mercati sono stati aperti a cannonate e in alcuni casi per garantire un tipo di libero commercio non proprio edificante. Ad esempio l’Inghilterra ha mosso per ben due volte guerra alla Cina (nel 1839 e nel 1856) per poter commerciare liberamente oppio nell’Impero di Mezzo.

A dispetto delle formulazioni di un astratto liberismo, i poteri statali sono da sempre, e rimangono, attrezzi della lotta di concorrenza tra gruppi economici e lo sono a maggior ragione in un settore come la difesa. In tal senso la storia degli Stati Uniti non fa certo eccezione, casomai la particolarità del canovaccio americano risiede nella dimensione assunta da questi attrezzi.

Tra i fattori che hanno consentito agli USA di diventare la prima potenza mondiale, figura a pieno titolo la capacità di centralizzazione politica di uno stato che – pur con i fisiologici attriti e compromessi che caratterizzano il percorso di sintesi di un interesse generale, reso ancor più complesso da un’architettura istituzionale federale – ha concorso in modo decisivo alla formazione, allo sviluppo e alla gestione di un mercato interno e di un apparato economico-industriale di dimensioni continentali.

Sarà quest’ultima la dimensione di potenza ad imporsi nel fuoco della seconda guerra mondiale: anche se la rappresentazione di un mondo spartito fra due sole “superpotenze” era una mistificazione, resta il fatto che l’ordine mondiale formalizzato a Yalta si basava principalmente sullo stato dei rapporti di forza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, due grandi potenze continentali.

Già dal secondo dopoguerra per poter almeno ambire (dato che poi un effettivo esercizio è altra cosa ancora), ad un ruolo di leadership globale, la stazza continentale era diventata un presupposto inaggirabile. In questo innalzamento di scala nei rapporti tra potenze risiedono il senso storico e il contenuto strategico del processo di unificazione europea che non a caso ha mosso i primi passi negli anni ’50.

Oggi quel requisito si è fatto più stringente con l’ingresso sullo scacchiere internazionale di competitori – in primis dall’Asia, in seconda istanza dall’America Latina e in prospettiva, pur con qualche “problemino” in più, dall’Africa – che, nonostante le incognite legate al rallentamento dei ritmi di crescita e non di rado alla instabilità politica, vantano una popolazione che si conta in centinaia di milioni e un PIL che intanto si è fatto non trascurabile, così come il loro mercato interno.

Nel quadro delle relazioni internazionali del XXI secolo è irrealistico pensare di poter affrontare – soprattutto se si ambisce a un ruolo, se non di leader, almeno da co-protagonista – le sfide globali che si annunciano, e che in parte sono già in corso, dalla prospettiva di uno stato di 60-70 milioni di abitanti.

Questo vale sia in ambito economico che politico, e in quello militare, indipendentemente dal fatto che con quest’ultimo ci si riferisca al terrorismo internazionale, ai conflitti a bassa intensità, alla guerra convenzionale o al mercato degli armamenti da garantire ai propri gruppi dell’industria della difesa.

Si tratta di un aspetto che è bene non perdere di vista nei paesi (rimasti) membri dell’UE e con cui non tarderanno a doversi misurare anche i facili entusiasmi di un sedicente neo-indipendentismo d’Oltremanica. Non fosse altro per il fatto che ormai è da un pezzo che la Cina non è più quella dei tempi delle guerre dell’oppio o della rivolta dei Boxers.

(foto: Office of War Information Collection / U.S. Air Force / NASA / U.S. Navy / Xinhua)