Il Karate nella sua applicazione bellica

11/12/20

Prima di affrontare quello che è uno degli aspetti sicuramente meno conosciuti del Karate, è doveroso ricordare il fatto che la corretta pronuncia della parola karate è karatè (con l’accento sulla “e”, anche se la lingua giapponese è sostanzialmente monotòna). La pronuncia karàte (con l’accento sulla seconda “a”), peraltro molto diffusa anche tra qualificati praticanti, è totalmente errata, come sancisce il sistema ufficiale di traslitterazione di ideogrammi e pronuncia “Hebon-shiki romaji”.

Tale fatto è dovuto alla sempre maggiore influenza fonetica che ha la lingua Inglese sulle altre lingue, compresa quella Italiana.

Per inquadrare appieno la natura del karate, è necessario tuttavia fare un brevissimo accenno storico per comprenderne l’origine remota e per determinarne la specifica evoluzione, anche militare, che si è avuta nel tempo.

La sua nascita nell’isola di Okinawa, nell’ambito di una società rurale e contadina, è sicuramente l’aspetto più conosciuto, ma rappresenta in realtà solamente un periodo, ancorché molto significativo, dell’evoluzione del karate stesso. La sua storia completa è molto articolata, talvolta contraddittoria, e risulta sovente difficile inquadrarne in modo lineare la sua evoluzione, anche da parte dei numerosi storici e studiosi della materia. Infatti le circostanze, gli eventi, le date e luoghi non risultano sempre certi… principalmente per la carenza di documenti ufficiali, di riferimenti precisi, di testimonianze attendibili, di traduzioni accurate e, forse, anche per la volontà di non divulgare informazioni al di fuori di un determinato e ristretto contesto.

L’isola di Okinawa (Uchinaa, che in lingua autoctona significa “la corda in vista”, in quanto vista dal mare assomiglia a un pezzo di corda galleggiante sull’acqua) è la principale isola dell’arcipelago delle Ryukyu, arcipelago situato a sud-ovest del Giappone e costituito da più di un centinaio di isole.

La storia del Regno delle Ryukyu (1400-1800), la cui capitale era la città di Shuri (ad Okinawa), si sviluppa, con alterne vicende, da un periodo di piena opulenza e potenza bellica (Gusoku – il periodo dei 300 castelli) ad un periodo di parziale decadenza ovvero quando, agli inizi del 1600, il Regno subì l’invasione giapponese che lo rese sostanzialmente un feudo giapponese, parzialmente indipendente, sino al 1800.

Solo nel 1879 Okinawa ed il suo arcipelago divennero ufficialmente una Prefettura giapponese (Prefettura di Okinawa). In ogni caso, per moltissimi anni l’aristocratico e raffinato Regno delle Ryukyu fu al centro dell’attenzione e degli interessi di molti Paesi dell’Estremo Oriente in quanto rivelatosi eccellente luogo di intermediazione commerciale e culturale.

Ad Okinawa quindi, per molto tempo, transitarono o si insediarono mercanti, diplomatici, uomini di cultura, artisti, scrittori, guerrieri, marinai e pescatori provenienti dalla Cina, da Formosa, dal Giappone, dalla Corea, dal Siam (Thailandia), dal Dai-Viet (Vietnam) e dall’Indonesia.

Numerosi esperti di varie discipline di combattimento (samurai e marinai compresi), sovente di passaggio nelle isole Ryukyu, fornirono un notevole contributo allo sviluppo di quelle antiche tecniche di combattimento già preesistenti, tecniche inizialmente trasmesse segretamente solo nell’ambito delle aristocrazie del luogo e successivamente elaborate da quegli stessi nobili poi decaduti e diventati contadini.

Il prolungato contatto con i cinesi, compresi quelli che si trasferirono in pianta stabile sull’isola di Okinawa, nonché i divieti di portare armi, influenzarono moltissimo l’ulteriore sviluppo delle varie forme di combattimento disarmato, ovvero “a mani nude”.

Le influenze cinesi provenivano principalmente dalla scuola dei monaci del tempio di Shaolin e dall’antica scuola Wushu-Wutang: due scuole diverse che influenzarono notevolmente quella arte marziale che venne poi definita Okinawa-te (la “mano di Okinawa”), poi ridenominata Tote (la “mano cinese”) e infine divenuta Karate-do (“l’arte della mano vuota” ovvero “disarmata”).

Sebbene il karate fosse già conosciuto in Giappone, nel 1922, su invito del maestro Jigoro Kano (fondatore del Judo “moderno”), il fondatore del Karate stile Shotokan, l’okinawense Gichin Funakoshi (foto seguente), si esibì in una formidabile dimostrazione di fronte a numerosi dignitari e notabili giapponesi presso il Kodokan di Tokyo, dimostrazione a seguito della quale fu deciso che il karate venisse insegnato e praticato presso numerose Università giapponesi.

Nel 1939, infine, il Dai Nippon Butokukai di Tokyo (in questo caso nella sua particolare veste di Centro di Formazione Militare) decretò l’ascrizione ufficiale del Karate nelle “Arti Marziali giapponesi” e ne sancì ufficialmente il suo insegnamento presso le Forze Armate, facendo così nascere il karate giapponese. Tuttavia, anche se Okinawa è giapponese da più di un secolo, permane ancora la differenza tra il “Karate di Okinawa” e il “Karate giapponese”.

Nel periodo iniziale okinawense il karate, oltre ad essere già la sintesi di molte altre forme di combattimento, presentava due principali correnti (questione comunque tuttora molto dibattuta): la corrente Shorin (che ha dato origine ai vari stili in cui veniva privilegiata l’agilità e la velocità, nonostante le posizioni di guardia abbastanza basse, con le gambe molto piegate per garantire maggiore stabilità) e la corrente Shorei (che ha dato origine ai vari stili in cui veniva privilegiata la forza fisica e la potenza muscolare, con le posizioni di guardia relativamente alte per garantire maggiore mobilità e affondo in attacco).

Gli stili storici iniziali furono sostanzialmente 4 (Shotokan, Goju-Ryu, Shito-Ryu e Wado-Ryu) mentre ora, a seguito di continue e diverse interpretazioni e modifiche tecniche apportate dai vari e successivi maestri, se ne possono contare quasi un centinaio, sicuramente tutti validi. Questi “derivati”, alcuni dei quali anche famosi e molto diffusi, risentono ancora adesso delle numerose differenze delle due correnti Shorin e Shorei (terminologia, allenamento, sviluppo della potenza, tipi di respirazione, esercizi di base kihon, esercizi di forma kata, addestramento al combattimento kumite, tecniche e tattiche di combattimento).

Ora, dopo tale premessa, occorre passare dal Budo, che rappresenta la pratica delle arti marziali per giungere ad un proprio equilibrato stile di vita attraverso una rigorosa disciplina interiore ed un meticoloso ed intenso addestramento fisico, al Bugei, che rappresenta la pratica delle arti marziali finalizzate al conseguimento di capacità offensive letali per l’impiego bellico. Non si parla più quindi di stili o di scuole, che possono essere anche molto diverse tra di loro, ma del loro scopo finale, ovvero il combattimento in guerra.

Tale concetto va a definire il Senjo-Karate, ovvero il “karate per il campo di battaglia”, che inquadra il karate secondo uno specifico imi, una particolare finalità, per la quale è sempre richiesto un condizionamento, sia fisico che mentale, “dedicato”. In questo caso, come base di partenza vi è il shugyo, la “pratica rigorosa e disciplinata” e il tanren, la “disciplina finalizzata alla formazione del guerriero”: il corpo e la mente devono essere “forgiati” come una lama sempre affilata e pronta al combattimento.

Parti del corpo devono essere abituate, per quanto possibile, a ricevere colpi (shimè, da non confondere con shime-waza, le tecniche di strangolamento del Judo) e una o più parti del corpo devono essere condizionate all’impatto, ovvero a colpire, a rompere… a fratturare attraverso un continuo e costante indurimento di quegli arti che verranno usati come armi di difesa e di attacco. Una capacità fondamentale per ottenere questo risultato è la generazione di una potenza esplosiva, tipica del karate e di solo alcune altre discipline estremo-orientali, detta kimè (approssimativamente il chinkuchi delle scuole di Okinawa), ovvero quella capacità di contrazione improvvisa di tutti i muscoli e tendini del corpo al momento dell’impatto sul bersaglio, aumentando in tal modo la potenza del colpo stesso incrementandone l’effetto devastante.

L’argomento è molto complesso e articolato, con alcune differenze tra i vari stili e le varie scuole, ma, in estrema sintesi, il kimè risulta essere una sommatoria di molti fattori tra i quali lo zanshin, uno stato mentale di massima concentrazione e di massima allerta, l’hakkei, la generazione di potenza tramite l’energia (ki) prodotta soprattutto dalla rotazione (e vibrazione) delle anche (koshino kaiten), l’haragei, il controllo e l’orientamento del flusso dell’energia generata dal centro dell’addome (seika-tanden), ed il kiai, il tipico urlo/grido dei karateka (da evitare in particolari situazioni operative), dovuto all’espansione di quella energia interna che viene compressa e convogliata con forza dalla contrazione addominale tramite la respirazione forzata (ibuki).

La dimostrazione della capacità distruttiva di un colpo all’impatto è ben espressa nelle dimostrazioni di tameshiwari, dove i karateka rompono tavolette di legno, pile di tegole, mattoni, barre di ghiaccio o altri materiali. Tale capacità è propedeutica allo studio del kyusho o kenketsu, l’individuazione dei punti vitali e mortali da colpire e al conseguente studio degli atemi-waza, le “tecniche dei colpi inferti”, ovvero di come si devono colpire i vari punti del corpo (nelle arti cinesi dim-mak, “il tocco della morte”), in aderenza ad uno dei primi dettami del combattimento bellico, che recita “Ichigeki hissatsu” (con un solo colpo la morte certa).

Naturalmente viene anche sviluppata la metodologia di più colpi inferti in rapidissima successione (shunsoku no renraku, colpi concatenati in velocità) per l’immediato annientamento dell’avversario.

Il duro condizionamento al combattimento deve avvenire in condizioni climatiche particolarmente ostili per fortificare il corpo e la mente e prende il nome di shingitai o tegowai-geiko, e dovrebbe avere la sua massima espressione in due periodi dell’anno: nel kangeiko, l’addestramento invernale di 30 giorni nel mese più freddo dell’anno e nelle ore più fredde della giornata, e nel shokugeiko, l’addestramento estivo di 30 giorni nel mese più caldo dell’anno e nelle ore più calde della giornata. Questo non può essere ovviamente praticabile da parte di una unità militare impegnata in attività operativa, e quindi con limitatissimo tempo a disposizione da dedicare a tutte quelle attività non specificatamente inerenti la missione assegnata: per tale motivo viene data particolare enfasi ed importanza all’addestramento iniziale del combattente in modo da garantire nel tempo, con un minimo di “attività di mantenimento”, un elevato livello di efficienza e di letalità.

Poiché le situazioni nelle quali si debba affrontare il nemico possono essere le più disparate, è opportuno poter fare affidamento su un bagaglio di tecniche particolarmente efficaci, già verificate in campo operativo, che garantiscano la piena applicabilità in diverse situazioni tattiche. Come esempio può essere citato l’Ikadazumo Shinden-Ryu, un metodo militare per il combattimento su imbarcazioni e natanti che si ritiene abbia influenzato anche le tecniche impiegabili sulla terraferma: le tecniche e le posizioni particolarmente basse per mantenere l’equilibrio su una imbarcazione in movimento sono state acquisite e fatte proprie da altri sistemi per ulteriori altre finalità, come il poter ridurre così la propria superficie corporea all’attacco avversario garantendo nel contempo una maggior stabilità.

Un concetto fondamentale nel Senjo-Karate è il kamae. Kamae significa “assumere una posizione fisica” ma anche “assumere un assetto mentale”.

Nel karate la posizione di guardia si definisce in tre modi: Dachi/Tachi, considerando principalmente la posizione delle proprie gambe e dei propri piedi, Hanmi, considerando la propria posizione di guardia in relazione alla posizione di guardia assunta dall’avversario, Kamae/Gamae, considerando l’intera postura del proprio corpo e l’assetto mentale, allertato e predisposto all’attacco.

Assumere la posizione kamae, significa assumere fisicamente una “propria posizione” funzionalmente ottimale dalla quale poter sviluppare immediatamente e con determinazione tutte quelle tecniche di combattimento di cui si ha piena padronanza, e contestualmente significa assumere un assetto mentale di massima allerta e di percezione dell’ambiente circostante, garantendo così la percezione di movimenti, la stima della distanza, la velocità di azione/reazione e il perfetto tempismo d’azione.

Nelle frazioni di secondo in cui si assume il kamae, si deve passare in “modalità combattimento”, come se si caricasse una molla interna pronta a far scattare un’azione immediata di potenza esplosiva che si va a concentrare su un preciso bersaglio. Tale capacità deve essere garantita a prescindere da eventuali limitazioni dovute all’equipaggiamento individuale indossato, a prescindere dal grado di visibilità, a prescindere dallo spazio disponibile, a prescindere dalle condizioni meteo in atto e a prescindere dalla tipologia di superficie su cui ci si sta muovendo.

Per tale motivo un famoso istruttore di karate della Marina imperiale giapponese disse: "è con il kamae che capisci se sei pronto… se sei solo un tagliacarte da scrivania o sei invece un pugnale con la lama sempre affilata… e qui da me si forgiano solo pugnali!"

Marco Bandioli (Karate – cintura nera 5° Dan)

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