L’affondamento dell’Oria e le responsabilità tedesche: ennesima pagina di una storia dimenticata

(di Marco Valerio Verni)
21/02/17

L’occupazione italiana della Grecia avvenuta durante la seconda Guerra Mondiale rimane ad oggi uno dei periodi meno conosciuti della nostra storia: se la produzione memorialistica presenta numerose lacune (quella edita, infatti, è assai limitata, mentre quella inedita, oltre ad avere dei limiti di consultazione, è costituita in modo particolare da memoriali scritti a molti anni di distanza), anche le opere storiografiche sono assai rare e non esaustive. Di conseguenza, quest’occupazione finisce con il presentarsi come una sorta di “parentesi della memoria, compressa tra la guerra guerreggiata: 28 ottobre 1940-23 aprile 1941, e ciò che accade a cavallo e in seguito all’8 settembre 1943. Se escludiamo lo scalpore destato dal processo a Renzo Renzi e Guido Aristarco per vilipendio delle forze armate, nel 1953, si può dire che l’intero periodo d’occupazione giaccia comodamente dimenticato in uno dei tanti scantinati della storia nazionale”1.

In tale contesto, uno degli episodi che, per lungo tempo, è rimasto dimenticato, anche in patria, è quello di cui, proprio nei giorni scorsi, si è celebrata la ricorrenza, riguardante il naufragio del piroscafo norvegese Oria e gli oltre 4000 militari italiani che vi persero la vita, nonostante la denuncia fatta dai diversi, seppur pochi, superstiti che, comunque, riuscirono a salvarsi e che poterono raccontare una delle peggiori sciagure del mare mai accadute.

I fatti

L'Oria era un piroscafo da carico norvegese, di poco più di duemila tonnellate, costruito nel 1920 nei cantieri Osbourne, Graham & Co di Sunderland, e di proprietà della compagnia di navigazione Fearnley & Eger di Oslo.

All'inizio del secondo conflitto mondiale, esso fece parte di alcuni convogli inviati in Nord Africa, e, nel giugno del 1940, proprio a Casablanca, fu internato poco dopo l'occupazione tedesca della Norvegia; dipoi, l’anno successivo, fu requisito dalle forze francesi di Vichy e, ribattezzato col nome di “Sainte Julienne”, fu dato in gestione alla Société Nationale d'Affrètements di Rouen, iniziando a navigare nel Mediterraneo; nel novembre del 1942 fu formalmente restituito al proprietario e, nuovamente ribattezzato, col nome “Oria”, fu, subito dopo, affidato alla compagnia tedesca Mittelmeer Reederei GmbH di Amburgo e, quindi, del Terzo Reich.

Nell'autunno del 1943, dopo la resa italiana in Grecia, i tedeschi decisero di trasferire le decine di migliaia di prigionieri in loro possesso via mare, usando spesso imbarcazioni fatiscenti, spesso sovraccariche di persone ed al di fuori di qualsiasi norma di sicurezza (tant’è che diverse di esse affondarono, o per attacco degli Alleati o per incidente, con la morte di migliaia di uomini).

Proprio l'Oria fu tra le navi scelte per il trasporto degli italiani, ai quali, rei di aver scelto di non combattere più a fianco dei tedeschi - e quindi considerati traditori - non fu peraltro riconosciuto lo status di “prigionieri di guerra”, con tutte le conseguenze del caso: una di esse, che costò loro la vita, riguardò proprio le condizioni di carico in cui il piroscafo, l'11 febbraio del 1944, fu costretto a partire da Rodi alla volta del Pireo.

Scortato da alcune torpediniere, infatti, esso contava a bordo 4046 militari internati (43 ufficiali, 118 sottufficiali, 3885 soldati), 90 tedeschi di guardia o di passaggio, e l'equipaggio, insieme ad un carico di bidoni di olio minerale e gomme da camion.

Quasi inevitabile, in queste condizioni, ciò che successe il giorno successivo: colto da una tempesta, dopo essersi incagliato nei bassi fondali prospicienti l'isola di Patroklos, l’Oria affondò presso Capo Sounion, a 25 miglia dalla destinazione finale.

I soccorsi, ostacolati dalle pessime condizioni meteo, consentirono di salvare solo 37 italiani, 6 tedeschi, un greco, 5 uomini dell'equipaggio, incluso il comandante Bearne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina2.

Nel 1955 il relitto fu smembrato dai palombari greci per recuperare il ferro, mentre i cadaveri di circa 250 naufraghi, trascinati sulla costa dal fortunale e sepolti in fosse comuni, furono traslati, in seguito, nei piccoli cimiteri dei paesi della costa pugliese e, successivamente, nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. I resti di tutti gli altri morti, invece, giacciono ancora in fondo al mare.

La commemorazione

​L'11 febbraio scorso, si sono svolte, in video collegamento tra loro, due cerimonie commemorative: una, proprio a Capo Sounion, in Grecia; l'altra nel comune di Seravezza, in provincia di Lucca (molti, tra i caduti, provenivano dalla Toscana).

La prima, organizzata dalla Regione Attica e dai Comuni di Saronico e Lavrio, ha visto la partecipazione, oltre che dei rappresentanti di detti enti locali anche del rappresentante del ministero della difesa ellenico, dell'ambasciatore d’Italia, s.e. Efisio Luigi Marras, del generale Vittorio Antonio Stella, attuale italian senior representative presso il NATO Rapid Deployable Corps – Greece (Corpo di Reazione Rapida NATO NRDC-GR) di Salonicco, dei defence attaché di Germania, Iran, Russia, U.K. e U.S.A, nonché dei rappresentanti dei comitati italiani presenti in Grecia.

Alla seconda, invece, hanno partecipato numerose autorità civili e militari, le rappresentanze di alcuni comuni toscani e pugliesi, l’Addetto per la Difesa in Grecia, col. Antonio Albanese ma, soprattutto, in collegamento dalla Grecia, il sommozzatore greco, Aristotelis Zervoudis, protagonista, all’epoca, del rinvenimento del relitto.

La speranza è che questo tragico accadimento venga sempre più ricordato, in futuro, anche se, nel nostro paese è spesso complicato guardare alla storia con occhio critico ed equidistante da possibili condizionamenti di parte: l'altrettanto recente ricorrenza dedicata alla commemorazione dei martiri delle Foibe, al centro, tuttora, di numerose critiche, ne è una drammatica quanto sconcertante riprova.

Spesso, si preferisce, nel migliore dei casi, nascondere molti accadimenti che potrebbero, per un qualche motivo, risultare scomodi: quello dell’Oria, certamente, non rende merito alla Germania, oggi sempre più al centro delle critiche di alcuni paesi europei vessati dalle politiche economiche dettate dalla sua cancelliera, e che - giocoforza - non perdono occasione di rivendicare (anche e soprattutto sotto il profilo di eventuali risarcimenti monetari) i crimini da essa subiti proprio durante la seconda guerra mondiale (tra di essi, anche la Grecia).

A distanza di tanti anni da allora, lasciando ai parenti delle vittime, ove un giorno fosse possibile, la scelta se procedere al recupero di quel che possa restare dei loro cari in fondo al mare, o lasciare tutto così com'è, sarebbe tuttavia interessante indagare anche sulle responsabilità giuridiche del tempo (come, d’altronde, avvenne per altri ed altrettanto tragici avvenimenti, non solo all’indomani della fine del conflitto, ma anche successivamente ad essa), per rendere onore - anche così - a degli uomini che, consapevoli delle conseguenze a cui sarebbero andati incontro, preferirono comunque rimanere ligi ai propri doveri di militari: che, in linea di massima, ovunque essi si trovarono ad operare, furono sempre, da parte italiana, soldati e non criminali.

1 - Si veda al link: http://hdl.handle.net/10579/970.

2 - Si veda al link: www.piroscaforia.it.