Košare 1999: l'ultima resistenza dell'esercito jugoslavo in Kosovo

(di Andrea Gaspardo)
10/07/19

Tra il 24 marzo ed il 10 giugno 1999, con l'operazione denominata “Allied Force” (ma nella dicitura militare statunitense essa è nota come operazione “Noble Anvil”) la NATO intervenne nella “Guerra del Kosovo” a sostegno delle forze della guerriglia albanese guidate dall'organizzazione militante dell'UÇK (sigla albanese per “Ushtria Çlirimtare e Kosovës” - “Esercito per la Liberazione del Kosovo”) che dal febbraio 1998 stavano portando avanti una guerra sanguinosa e senza quartiere contro le autorità della Repubblica Federale di Jugoslavia, le quali adoperavano metodi altrettanto brutali per reprimere quella che consideravano una pericolosa sedizione interna.

Sebbene la gran parte del pubblico occidentale ricordi la “Guerra del Kosovo” principalmente attraverso le immagini dei bombardamenti aerei della NATO contro obiettivi strategici situati su tutto il territorio della Jugoslavia (allora formata da Serbia, Montenegro, Vojvodina e Kosovo), in realtà pochi ricordano che il territorio della Provincia Autonoma del Kosovo divenne teatro di una cruenta guerra di terra combattuta senza esclusione di colpi e di atrocità dall'UÇK e dalle forze armate e di polizia di Belgrado.

Lo scontro che più di tutti simboleggia la disperata situazione sul terreno nella quale si trovarono letteralmente “avvinghiati” i contendenti fu la cosiddetta “battaglia di Košare”, una serie ininterrotta di combattimenti durata 67 giorni avvenuti lungo il confine tra il Kosovo e l'Albania tra l'aprile ed il giugno 1999 e conclusasi solamente con la fine della guerra stessa, il 10 giugno.

A 20 anni esatti da quegli avvenimenti, e grazie anche alle nuove informazioni che divengono via via disponibili anno dopo anno, è ora possibile tracciare un'immagine d'insieme degli eventi che interessarono la penisola balcanica e degli uomini delle due parti che si affrontarono senza esclusione di colpi per il controllo di questo angolo quasi dimenticato d'Europa.

A causa della sua posizione strategica come “corridoio di passaggio” di uomini ed armamenti, il confine kosovaro-albanese era diventato un focolaio di attività già all'indomani degli accordi di Dayton che avevano posto fine alla “prima fase” delle guerre di disintegrazione della Jugoslavia. Sebbene infatti l'UÇK esistesse già dai primi anni Novanta, essa era rimasta sostanzialmente inattiva ed in una posizione “attendista” per tutta la prima parte del decennio. La fine delle guerre in Croazia e Bosnia e gli eventi della cosiddetta “Guerra Civile Albanese” del 1997 però, ebbero come conseguenza il fatto che una gran quantità di armi di tutti i tipi, dalle più vecchie alle più moderne, prese la via dell'Albania settentrionale giungendo nelle disponibilità dell'UÇK i cui vertici decisero di passare all'azione. Così, mentre nel febbraio del 1998 il mondo realizzò improvvisamente che una nuova guerra stava divampando nella penisola balcanica, la zona del confine era già da tempo diventata un autentico vespaio.

Nella sua successiva manovra contro insurrezionale, Belgrado decise non solo di attaccare i bastioni della militanza albanese all'interno del Kosovo ma, con una vigorosa operazione di contenimento, strette la morsa per giungere ad una completa chiusura e militarizzazione del confine. Dopo oltre un anno di ininterrotte operazioni, alla vigilia di “Allied Force”, il flusso di uomini ed armi a sostegno della guerriglia albanese attraverso il confine si era praticamente esaurito e le forze della guerriglia all'interno della provincia stavano seriamente perdendo terreno.

Alla luce di tutto ciò venne presa la decisione, condivisa sia dai vertici dell'Alleanza Atlantica sia dalla guerriglia kosovara e dai suoi sponsor nella Repubblica d'Albania, di attuare un piano militare che portasse allo scardinamento del dispositivo militare e di polizia jugoslavo lungo il confine per riaprire le linee di rifornimento verso l'interno del Kosovo.

Ai primi di aprile 1999, dopo appena una settimana dall'inizio dei bombardamenti aerei, le forze della guerriglia kosovara (che grazie alla mobilitazione di un gran numero di albanesi etnici provenienti da tutto il mondo aveva raggiunto la ragguardevole cifra di 45.000 uomini) cominciarono una serie di puntate offensive nella zona di Kukës per individuare il punto migliore per il successivo attacco concentrico. La scelta ricadde su Košare perché, sebbene questa località fosse dominata da una caserma dell'esercito jugoslavo, la sua posizione era considerata dagli Alleati come assolutamente indifendibile. A quell'epoca, la piccola caserma era difesa solamente da 110 uomini di un'unità di fanteria per la difesa statica coadiuvati da ulteriori 190 commilitoni sparsi in varie posizioni avanzate situate tutto intorno, per un totale di non più di 300 fanti per l'intero settore. Sebbene questo dispositivo difensivo fosse definito piuttosto “tenue”, le forze jugoslave avevano predisposto delle ulteriori linee di difesa arretrate utilizzando la tormentata orografia del terreno circostante.

Alle 3:00 del mattino del 9 aprile 1999, il momento della verità finalmente arrivò quando, protette da uno sbarramento d'artiglieria sia mono che poli tubo fornito dalle forze armate albanesi, ed appoggiate da raid aerei mirati da parte delle forze NATO, gli uomini dell'UÇK si lanciarono all'attacco contro il perimetro esterno delle difese jugoslave. A coordinare l'intera operazione fu il generale Kudusi Lama, comandante della divisione albanese avente in carico la difesa di Kukës, dalla parte albanese del confine. In tale frangente egli poteva avvalersi di un filo di comunicazione diretto con il generale americano Wesley Clark, comandante in capo delle forze NATO, mentre le iniziative tattiche sul terreno erano affidate ai comandanti locali dell'UÇK che guidavano personalmente i loro uomini in battaglia.

Inizialmente le forze jugoslave furono colte di sorpresa dalla potenza di fuoco del nemico e, dopo il secondo giorno di combattimenti, dovettero abbandonare la semi distrutta caserma di Košare che venne immediatamente mostrata come trofeo ai giornalisti della CNN e della BBC “embedded” con i guerriglieri. Successivamente, i combattenti albanesi cercarono di dare l'assalto alla seconda linea di difesa jugoslava centrata attorno al complesso difensivo del monte Paštrik senza tuttavia ottenere nulla.

La prima spinta offensiva dell'UÇK si esaurì quindi il 13 aprile con gli albanesi che potevano vantare la conquista della posizione di Košare senza però aver aperto quell'indispensabile corridoio verso l'interno del Kosovo che la NATO aveva richiesto. Nei due mesi seguenti, l'area intorno a quel piccolo lembo di terra divenne il punto focale della maggior parte dei combattimenti terrestri della guerra. Nonostante l'appoggio dell'artiglieria e dei carri armati delle forze armate albanesi e delle forze aeree della NATO (che arrivarono a concentrare nella zona la bellezza di oltre 100 velivoli, pari al 10% dell'intera forza mobilitata per “Allied Force”) i guerriglieri kosovari (nel frattempo divenuti un esercito in piena regola) non riuscirono ad infrangere le difese jugoslave distribuire in profondità, anzi, dopo aver respinto tutte le puntate offensive nemiche, nel corso di maggio i militari jugoslavi lanciarono persino dei contrattacchi che riuscirono a cacciare gli albanesi da tutti i territori da loro guadagnati nel corso della loro offensiva, con l'unica eccezione del valico di Košare e della sua famigerata caserma.

Sebbene all'epoca le principali testate giornalistiche strombazzassero numeri da capogiro riguardanti le perdite che i militari jugoslavi avevano sofferto a causa dei bombardamenti aerei alleati, in particolare da parte dei B-52 Stratofortress e degli A-10 Thunderbolt II, la realtà fu assai più prosaica. Trincerati in profondità ed utilizzando il favore della notte e la fitta copertura boscosa a proprio vantaggio, gli jugoslavi riuscirono ora a disperdere ora a concentrare le forze a seconda delle necessità tattiche in una maniera tale da negare completamente il dominio del cielo da parte dell'avversario. Non solo, occasionalmente l'aviazione alleata divenne un pericolo proprio per i guerriglieri kosovari, come quando, il 22 maggio, gli aerei della coalizione bombardarono per errore le posizioni dell'UÇK causando almeno 67 morti tra le fila dei guerriglieri.

Assai più pericolosa fu per i militari di Belgrado l'artiglieria albanese i cui serventi dimostrarono una certa abilità nello “stanare” gli avversari al riparo delle trincee, tuttavia quando nel corso del mese di maggio gli jugoslavi riuscirono a spostare nel teatro operativo un numero sufficiente di pezzi della loro artiglieria pesante, per gli albanesi furono dolori. In barba al dominio dell'aria avversario, le forze di Belgrado riuscirono a far partecipare ad alcuni contrattacchi persino carri armati ed altri veicoli blindati che si dimostrarono decisivi nei singoli ingaggi. Pare infatti che l'unico veicolo corazzato ad essere perduto dagli jugoslavi nel corso dell'intera battaglia di sia stato un BOV centrato da un razzo anticarro esploso dai guerriglieri, non certo dai velivoli alleati.

L'orografia del terreno e la presenza di una fitta vegetazione giocò ora a favore ora a sfavore di entrambi i contendenti dato che ambedue le forze ci fecero affidamento quando costrette a “giocare in difesa”.

Da notare che, in diversi momenti della battaglia, gli albanesi e gli jugoslavi si fronteggiarono da posizioni distanti non meno di 10 metri! In tale contesto, tutti gli strumenti d'arma a longo raggio divennero inutili ed i contendenti dovettero fare ricorso alla “dea bomba a mano” di cui, ancora oggi, il terreno attorno a Košare restituisce esemplari inesplosi a palate.

Per quanto riguarda le perdite, per lungo tempo le autorità jugoslave prima e serbe poi hanno parlato della perdita di 108 uomini anche se, ad un'attenta analisi, pare che tale numero si riferisca solamente alle perdite sofferte dalla guarnigione della caserma di Košare nei primi 5 giorni di combattimenti (è appurato che solamente 2 dei 110 fanti del presidio originale sopravvissero alla battaglia). Considerando però il numero degli uomini coinvolti, la durata dell'intera battaglia e la violenza dei combattimenti, è possibile ipotizzare che le forze armate e di polizia di Belgrado impiegate nella zona abbiano sofferto diverse centinaia di morti, fino ad un massimo di 1000.

Dall'altra parte, gli albanesi si sono sempre rifiutati di fornire cifre in merito alle loro perdite che pare comunque risultino tra le 5 e le 10 volte maggiori di quelle jugoslave. Un velo di segretezza totale riguarda poi l'impiego da parte di entrambe le forze di mercenari e volontari stranieri oltre alla presenza di elementi delle forze speciali e dei servizi segreti dei paesi della NATO in appoggio all'offensiva albanese anche se sono note le generalità di almeno 1 volontario russo caduto tra le file jugoslave e di 3 volontari occidentali (tra cui 1 italiano) caduti tra le file degli albanesi.

A livello strategico, la battaglia di Košare risultò nel complesso inconcludente dato che nessuno dei due contendenti riuscì ad ottenere una vittoria completa. A livello tattico però, furono le forze jugoslave ad ottenere i risultati migliori. Colti di sorpresa nelle fasi iniziali dei combattimenti, gli uomini di Belgrado riuscirono magistralmente a stabilizzare la linea del fronte dirottandovi un numero crescente di rinforzi ed obbligando gli avversari a trasformare il teatro operativo nel vero centro focale dell'attenzione strategica quando forse, impiegando le stesse risorse altrove, avrebbe potuto ottenere un successo. Non solo, tra le unità militari e di polizia di rinforzo che gli jugoslavi riuscirono a portare al fronte (al momento del massimo impegno Belgrado schierò attorno a Košare la bellezza di 10.000 uomini, su un totale di 144.000 militari e 20.000 poliziotti presenti in Kosovo) c'erano anche gli elementi di punta della 549a brigata motorizzata, la 125a brigata motorizzata, la 63a brigata paracadutisti, il 72esimo battaglione commando da ricognizione, il battaglione anti-terrorismo “Falchi”, il battaglione della polizia militare per operazioni speciali “Cobra”, l'unità speciale anti-terrorismo “SAJ” e l'unità per operazioni speciali “JSO” senza che la campagna aerea della NATO riuscisse minimamente ad incidere né sullo schieramento né sulla capacità combattiva delle suddette unità.

Particolarmente pregevoli furono poi le prestazioni fornite dagli uomini della 63a brigata paracadutisti che, giunti al fronte in un momento particolarmente delicato dopo i primi rovesci iniziali, e soffrendo un certo numero di perdite, riuscirono comunque a stabilizzare il fronte ed assorbire il peso principale dell'offensiva albanese senza cedere terreno, scrivendo nel contempo alcune delle pagine più memorabili della storia militare della loro unità e del popolo serbo in generale.

Foto: U.S. Air Force / YouTube / web