10 febbraio 1947: il prezzo della sconfitta

(di Matteo Acciaccarelli)
10/02/17

Il 10 febbraio 1947, esattamente 70 anni fa, per l’Italia si chiudeva definitivamente il periodo di transizione tra la fine della seconda guerra mondiale e il reinserimento nel contesto occidentale. La firma del Trattato di Pace, apposta a Parigi, spettò a Roberto Lupi di Soragna, un funzionario del ministero degli Esteri, senza che venissero chiamate in causa le alte cariche nazionali. La firma del trattato portò un’aria di sconforto sulla Penisola, dove lo sconforto la faceva da padrone. Un momento tragico, anche se questa era vista, con lungimiranza, come l’unica via per essere inseriti nel sistema post-bellico nato dalle ceneri della guerra.

Un trattato duro che attribuiva sì all’Italia la responsabilità di aver intrapreso una guerra di aggressione, essendo la principale alleata della Germania nazista, ma riconosceva anche la cobelligeranza seguita all’Armistizio dell’8 settembre 1943. Questo riconoscimento non rese più morbide le condizioni del Trattato di Pace, ma servì per poter gettare le basi di relazioni amichevoli con i Paesi firmatari. Oltre alle questioni prettamente belliche, vennero “risolte” anche delle questioni territoriali, le quali prevedevano che l’Italia perdesse tutte le colonie ottenute durante il regime fascista, il Dodecaneso, alcune piccole porzioni di territorio a favore della Francia e, soprattutto, perse la sovranità su Istria, Dalmazia e Trieste, con quest’ultima che divenne il Territorio Libero di Trieste, sotto amministrazione di Jugoslavia e Regno Unito.

L’altra, grande, questione che venne affrontata durante la stesura del Trattato di Pace fu l’apparato militare italiano. La domanda di fondo, specialmente dei delegati britannici, era: come fare per evitare nuove possibili velleità espansionistiche dell’Italia? Per gli Stati Uniti sarebbe stato impossibile che l’Italia fosse potuta diventare una grande potenza militare, specialmente alla luce della grande disfatta subita nella guerra da poco terminata. Alla fine, però, prevalse una linea intermedia tra quella statunitense e quella britannica, la quale premeva per una messa in sicurezza dell’Italia. Venne deciso un disarmo limitato alle Forze Armate italiane, delle quali la più penalizzata risultò essere la Marina Militare. Questo perché per l’Esercito venne decisa una riduzione del numero di effettivi, limite fissato a 185.000 uomini più 65.000 carabinieri, oltre a una limitazione nelle armi e nei mezzi detenibili. L’Aeronautica subì delle limitazioni anche minori perché venne deciso di fissare il numero di aerei detenibili a 200, per ricognitori e caccia, ed a 150, per quelli da trasporto, ma oltre a questo non ci furono importanti limitazioni.

La Marina Militare subì le maggiori limitazioni, anche in virtù dell’importanza che poteva avere nel caso di ricostruire una politica espansionistica nel Mediterraneo, una paura che in realtà era infondata vista la distruzione subita dalla flotta e dall’Italia stessa durante la guerra. Uno “smacco” che l’Italia non avrebbe mai voluto subire e, questo, venne dimostrato dalla caparbietà sia di De Gasperi (foto), presidente del consiglio italiano, sia di Ernesto Giurati, delegato militare alla commissione militare di Parigi. Entrambi misero l’accento sulla cobelligeranza della Marina durante la seconda parte della guerra, una cobelligeranza che doveva essere premiata. La proposta avanzata da Giurati fu quella di formare una flotta molto snella ma ben equipaggiata di navi, rimanendo anche sotto al tonnellaggio massimo che sarà imposto con il Trattato di Pace. Tutto questo per obiettare alla volontà, condivisa dai vincitori, di dividere in due la Marina Militare: una parte all’Italia, l’altra divisa tra le Quattro potenze vincitrici.

La decisione venne presa senza prendere in considerazioni le proposte italiane, facendo sì che la Marina Militare uscì dal Trattato di Pace quasi totalmente smantellata e con poco naviglio pesante a disposizione. Le principali navi da battaglia, Vittorio Veneto, Italia (già Littorio) e la Giulio Cesare, vennero divise tra Regno Unito, Stati Uniti ed Unione Sovietica, anche se va ricordato che i due Paesi, che diventeranno grandi alleati dell’Italia nella NATO, non richiesero la consegna delle navi a loro assegnate in cambio della loro demolizione. La Francia invece prese parte alla spartizione degli incrociatori ricevendone 3, l’Attilio Regolo, il Pompeo Magno e lo Scipione Africano. Un’altra parte degli incrociatori e dei cacciatorpediniere invece venne divisa tra Grecia, Unione Sovietica e, la suddetta, Francia. Destino molto simile ebbero anche le navi inutilizzabili a causa dei danni e quelle affondate nei porti, per queste venne deciso che sarebbero state smantellate ed i rottami utilizzati in parte dall’Italia e in parte dai vincitori della guerra. La Marina Militare uscì dal Trattato di pace con 46 navi contro le 105 rimaste alla fine della guerra, per un tonnellaggio complessivo di 106mila tonnellate contro le 268mila al 1945.

Il Trattato di Pace fu molto duro rispetto a quelle che erano le aspettative italiane, specialmente per quanto riguardava la Marina, utile per la difesa delle frontiere marine oltre che per mantenere i collegamenti con le colonie prefasciste. Ma il mondo era cambiato e, mentre in Grecia infuriava la guerra civile, Truman aveva elaborato la dottrina del contenimento, l’Italia non poteva rimanere disarmata di fronte a un possibile attacco da parte dell’Unione Sovietica o della Jugoslavia. Così non fu infatti, grazie alla nascita della Nato e all’inserimento italiano tra i Paesi fondatori.

(nella foto di apertura la Vittorio Veneto e la Giulio Cesere durante la battaglia di Capo Spartivento, nella foto in basso la Vittorio Veneto e la Littorio)