Simboli di morte

(di Paolo Palumbo)
20/04/18

Quando osserviamo fotografie provenienti dai reparti combattenti in Afghanistan, Iraq o qualsiasi altra parte del mondo, notiamo come su diverse uniformi mimetiche vengano apposti dei patch che richiamano l’immagine della morte.

Teschi, mietitrici con la falce o piuttosto repliche del famoso teschio del Punisher sono ormai entrati nell’immaginario collettivo come simbologia associata ai soldati ed in particolare a quelli delle Forze Speciali. Per un militare indossare fregi di questo tipo assume un significato particolare che permea “la morte” di un duplice valore: da un lato esprime il coraggio estremo, mentre dall’altro ne esorcizza la paura.

È notizia di oggi che l’esercito australiano ha tassativamente proibito a tutti i militari di usare ogni forma di rappresentanza del teschio, ivi compreso il celeberrimo “Jolly Roger” che capeggiava sulla bandiera dei pirati. Le ragioni addotte dal comando riguardano essenzialmente i valori negativi che potrebbero essere mal interpretati dalla gente comune o – ancora meglio – da una popolazione occupata.

“As soldiers our purpose is to serve the state, - ha spiegato il generale Campbell – employing violence with humility always and compassion wherever possible. The symbology to which I refer erodes this ethos of service.’’

Questo dibattito ha lambito anche alcune unità dell’esercito italiano, primi fra tutto gli incursori del Nono “Col Moschin” i quali – da discendenti diretti degli Arditi della Prima Guerra Mondiale – hanno nel teschio uno delle loro allegorie predilette.

Negli anni Sessanta era scoppiata una sterile polemica quando nell’ovale che attestava l’appartenenza al battaglione sabotatori un teschio era sovrastato da una pantera nera. Per alcuni dei soliti benpensanti dello stato maggiore la spilla fu giudicata troppo aggressiva e il soggetto imputato venne rimpiazzato da un globo terrestre, certamente più innocuo, ma privo di ogni significato per un’unità di quel genere.

Oggi gli incursori che esibiscono teschi e pugnali non sono ancora oggetto di inquisizione e per fortuna sembra che almeno in questo contesto la nostra cultura storica prevalga sul “politically correct” ad ogni costo.

Per il Nono semmai, è stato molto più apprezzabile il ripristino del gladio come rappresentazione di brevetto poiché ha segnato una legittima riappropriazione storica delle proprie origini. Lo stesso dicasi per il “teschio con la rosa in bocca” degli arditi del mare della Marina Militare il quale ha una valenza ancestrale che non racchiude nessuna interpretazione politica.

Sempre nel nostro esercito, ma al di fuori delle Forze Speciali, in pochi ricordano come la medesima testa di morte con il pugnale fra i denti fosse in uso presso la “fanteria d’arresto”, una specialità istituita negli anni Sessanta e le cui caserme erano dislocate prevalentemente nel Nordest a guardia di una possibile invasione.

Tralasciamo in questa sede la genesi dibattuta del germanico Totenkopf dalla triste memoria il quale però, è bene rammentarlo, prima fu un glorioso simbolo usato dalla cavalleria prussiana nel XVIIIº secolo, poi successivamente impiegato dalle prima unità corazzate quando ancora l’esercito era lontano dal nazismo.

Che i possenti militari australiani rinneghino così il loro turbolento passato di fieri e rissosi combattenti pare un po’ strano, tuttavia l’ostinazione nella ricerca di un atteggiamento sempre più corretto nei confronti del mondo esterno alle caserme sembra aver colpito anche loro.

(foto: U.S. Air Force / web / U.S. Navy)