Al servizio di Sua Maestà l'Europa

(di Paolo Palumbo)
28/12/18

In due precedenti articoli, Difesa Online ha immaginato, in maniera del tutto utopica, la possibilità per l’Esercito italiano di reclutare elementi stranieri per rimpinguare le file di una forza armata sempre più a corto di effettivi. Allo stesso modo ha analizzato la ben più concreta proposta di formare un esercito europeo suggerita del presidente francese Marcon. I due assunti – lo abbiamo già sottolineato – rientrano in una inclinazione tipicamente europea risalente ai secoli passati, quando ogni sovrano disponeva nel suo esercito di contingenti stranieri che combattevano per lui. Alcuni di questi permanevano per tradizione, altri venivano assunti a fronte di un lauto compenso e con diversi privilegi.

Negli eserciti che combatterono la Guerra dei Sette Anni (per non andare troppo indietro) gli elementi nazionali erano in minoranza rispetto le truppe mercenarie e solo la Prussia di Federico II poteva contare su una sorta di proto forza armata nazionale. Le ragioni dietro questa promiscuità militare stavano nel fatto che il mestiere delle armi offriva una possibilità – forse l’unica – di sopravvivenza per molti sbandati e accattoni in un’Europa di Antico Regime dove la forbice tra ricchezza e povertà assumeva proporzioni smisurate. Sebbene andare in guerra significasse poter morire, per molti era sempre meglio che arrabattarsi per procurarsi un tozzo di pane e un rifugio per la notte. L’esercito, a prezzo molto duro, offriva ambedue le cose: dunque perché non rischiare?

Oggi il dilemma che attanaglia il mondo militare europeo sembra essere una mancanza cronica di soldati. L’esercito italiano è un ottimo esempio di una forza armata sempre più vecchia, ma ancor peggio che tende a non offrire possibilità di carriera a quanti scelgano di trascorrere la vita in divisa. Il modello VFP (un surrogato della naja sotto forma volontaria) rappresenta un trampolino di lancio verso il nulla con giovani militari, sottopagati, congelati per un anno in una professione che non offre prospettive concrete per il futuro. Perché dunque affrontare una carriera fatta di sacrificio, magari con il rischio di finire per sei mesi nel deserto iracheno, per poi essere accomiatati con un “arrivederci e grazie”? Una volta terminato il servizio militare, si esce nel mondo civile completamente nudi, dove la professionalità di un ex caporalmaggiore – a meno che questo non abbia servito nei corpi speciali – serve a poco.

In Italia chiunque abbia l’ambizione indossare per la vita un’uniforme (ivi compresa quella delle FFOO) deve scontrarsi con lo spettro del “concorsone”, un’anomalia che per anni ha sancito da un lato il fallimento di molti volenterosi e dall’altro la carriera ad altrettanti raccomandati. Negli anni Ottanta, ad esempio, il tempio dal quale iniziava la scalata verso le stellette era l’Ergife, un mega complesso alberghiero ubicato a Roma, dove periodicamente si ritrovavano migliaia di giovani che tentavano di abbracciare il posto fisso superando i test d’ingresso per la polizia, carabinieri o guardia di finanza. Ma cosa c’era dietro? I posti erano già pochi e da questi si dovevano detrarre quelli già “prenotati” dai titolari di raccomandazione: lo spiraglio da cui passare era davvero stretto.

Adesso le cose si sono ribaltate poiché a fronte di un’offerta sempre più risicata, potremmo assistere ad un pericoloso decremento della domanda; la carriera militare - intesa come una vocazione che non dovrebbe essere un ripiego occupazionale - potrebbe non essere più appetibile a causa di alternative presentate dallo stesso governo. Per quei pochi che ancora anelano in un fututo con la mimetica le possibilità sono sempre più ristrette: le opportunità di crescita sono, infatti,  vanificate dalla mancanza di risorse. Al contrario il reddito di cittadinanza (il cui importo versato differisce di pochi euro rispetto la paga di un VFP1), prospettato dal nuovo direttivo potrebbe arrestare defintivamente le velleità militari di molti giovani i quali sanno già a priori che il loro impiego nelle forze armate è senza futuro. 

La pubblicazione degli articoli sopracitati (immigrati nell’esercito ed esercito europeo) ha suscitato l’indignazione di alcuni che hanno definito una “bestemmia” il semplice ipotizzare, anche solo per gioco, una forza armata multi etnica; eppure sono secoli che gli eserciti europei coloniali e post coloniali ingaggiano soldati stranieri al loro servizio. Pensiamo solo a cosa era l’esercito francese (possessore addirittura di una Legione Straniera), quello spagnolo o inglese nei quali interi reggimenti erano composti da personale proveniente dai domini d’oltremare. Durante la seconda guerra mondiale poi, la stessa Germania nazista, promulgatrice delle leggi sulla razza nelle cui fila dovevano militare solo i “puri”, inglobò nelle famigerate Waffen SS anche coloro che il partito considerava Untermenschen. In questo elenco figurano altresì gli italiani che – inebriati dalle prospettive di potenza coloniale – dalla fine dell’Ottocento cominciarono a formare reparti indigeni in Abissinia, Somalia ed Eritrea per poi sviluppare ulteriormente la presenza straniera nel Regio esercito con le Forze Armate dell’Africa orientale italiana. Questo significa che l’istituzione militare è da sempre l’organismo statale più permeabile a contaminazioni sovranazionali, scaturite da esigenze belliche, ma ugualmente di prestigio.

Per alcuni eserciti questa contaminazione permane – in forma minore – ancora oggi, mentre altri si stanno aprendo a prospettive più ampie. Sul tavolo del ministro della difesa tedesco, ad esempio, giacciono diverse proposte per arruolare nella Bundeswehr personale straniero in possesso di specifiche competenze, ma non solo. Karl-Heinz Brunner, responsabile per la Difesa del Partito socialdemocratico, ha spiegato come l’ipotesi tedesca sia stata guidata da una preoccupante decrescita del personale militare. I nodi da sciogliere sono ancora molti poiché non basta promuovere l’idea di un esercito europeo se prima non si sono fatti i conti con i requisiti che uno deve avere per entrarvi. Il possesso della cittadinanza sembra essere il punto cruciale sul quale ruota il dibattito all’interno del parlamento: concederla prima o dopo il servizio militare? Lo stesso Brunner specifica come il conferimento della cittadinanza sia la conditio sine qua non per servire nella Bundeswehr, altrimenti ottenerla dopo assomiglierebbe ad una ricompensa “mercenaria”.

L’Europa ha una probabilità di crescita in più, che si discosta dalle mere considerazioni economiche. Qualsiasi valutazione extra bancaria di questa Europa unita e malata, è rintracciabile nel percorso storico delle varie nazioni che la compongono, laddove esistono dei paradigmi molto più complessi che mettono in evidenza le contraddizioni e i pregi dell’essere europei. L’esercito e la storia militare sono un terreno di confronto fondamentale per capire alcune dinamiche statuali, soprattutto quelle che hanno condotto alla formazione di nazioni la cui legittimazione poggiava anche sul potere militare, ivi compreso quello coloniale.

(foto: Bundeswehr / U.S. Army)