USA-Turchia, fine di un amore?

18/07/16

Innanzitutto chiarezza. Non di amore si tratta, ma di matrimonio d’interesse. La Turchia risorta con la guida di Kemal “Ataturk” è stata per quasi un secolo il partner perfetto per gli Stati Uniti, utile e strategica come nessuno.

In tre aspetti particolari Ankara è stato un partner essenziale per Washington.

Il primo punto riguarda i rapporti con la Russia. Dai tempi degli zar, fra ottomani e russi non corre buon sangue. L’ineluttabile necessità di Pietroburgo e Mosca di trovare una sponda verso il Mediterraneo hanno generato un attrito costante, costellato di frizioni, controalleanze, guerre e ripicche. Alla cerniera naturale costituita dal Mar Nero e dal suo imbuto Bosforo, si somma la linea dei popoli turcomanni che tra l’Anatolia e il Caspio rumoreggiano da secoli a sud del Grande Impero. Talvolta in sordina, altre volte accompagnando l’eco dei popoli islamici che tra i monti del Caucaso pungolano il fianco meridionale di Madre Russia, le genti di origine turca sono un incubo ancestrale per gli ortodossi della steppa. È un dato storico inoppugnabile.

Nemmeno a farlo apposta la Turchia di Ataturk è sorta proprio in concomitanza della nascita dell’URSS, il nemico del secolo degli Stati Uniti. Nessuno poteva servire alla causa occidentale sul fronte sud eurasiatico meglio di Ankara. Con la Russia di oggi, cambiano bandiere e sistemi, ma lo sfondo resta immutato: nessun tappo è migliore della Turchia davanti al nemico, vero o presunto, che viene dall’Est.

Le eredità turche antiarabe hanno fatto il resto. Colonialista per DNA e connotata da una matrice islamica morbida, la Turchia ha affiancato Israele per decenni nelle politiche di raffreddamento delle paturnie arabe, mostrandosi agli occhi americani come fedele e affidabile partner mediorientale. La partneship tra Ankara e Tel Aviv in molti settori strategici è stata costante per più di mezzo secolo.

Terzo fattore, ma probabilmente il più importante, sono il potenziale e lo status politico della Turchia. Come ala destra naturale dell’Alleanza, Ankara fornisce il secondo apparato militare alla NATO, oltretutto privo di quelle “ossessioni democratiche” che vincolano tutti gli altri partner.

Questo idillio è durato per decenni perché alla Turchia la protezione occidentale è convenuta eccome. Al di là dei vantaggi economici, Ankara ha potuto sviluppare dietro al paravento americano un modello autoctono, mix di progresso e tradizione. In modo particolare, pur riconosciuta nel complesso come un Paese democratico, la Turchia è potuta rimanere fuori dai margini occidentali in termini di Diritto, di suddivisione dei poteri e di libertà individuali iniziando a percepire vaghe pressioni solo sulla strada verso l’Unione Europea. 

Tutto ciò ha creato un rapporto di reciproca convenienza: Ankara si è mantenuta sulle prospettive occidentali; l’Occidente e gli USA in particolare hanno chiuso gli occhi davanti a interpretazioni del diritto altrove discutibili. La questione curda, vale da esempio per tutto.

Il meccanismo ha iniziato a incresparsi proprio con l’ascesa della stella di Erdogan e del suo AKP, il partito conservatore islamico.

Su ciò che avviene nelle mura di casa, l’Occidente ha fatto spallucce. Delle iniziative di Erdogan in politica estera viceversa, ha cominciato a preoccuparsi.

Erdogan, primo statista turco carismatico dopo decenni di tepore, decide di cavalcare la figura di paladino dell’Islam e inizia un programma di appoggio urbi et orbi, senza precedenti. Finché si tratta di moschee, strade e centri culturali, gli USA e l’Europa nicchiano, anzi spesso benedicono senza remore. Bosnia, Somalia, Albania… non si contano i progetti finanziati da Ankara ben oltre il semplice patrocinio…

Cambia la musica quando Erdogan mette le mani in Egitto, dove l’asse con i Fratelli Musulmani fa indispettire il Cairo di Al Sisi, alleato degli USA. Lo scontro con l’Egitto si ripete in Libia, dove la Turchia appoggia il fronte islamista di Tripoli, osteggiato dalle milizie della Cirenaica finanziate proprio da Al Sisi.

Non solo: Ankara, senza aspettare l’ok americano, riconosce lo Stato di Palestina, mandando su tutte le furie Israele, con cui non dialoga più dall’assalto alla Mavi Marmara del 2010. Nel 2011 Erdogan parla davanti ai leader della Lega Araba, ponendo per la prima volta la Turchia in aperta rotta di collisione con Tel Aviv.

Su quanto successo in Siria, abbiamo parlato abbondantemente su questa rubrica. La Turchia stringe i rapporti con l’Arabia Saudita e benché ufficialmente schierata contro il terrorismo islamista, permette il transito di uomini e rifornimenti verso lo Stato Islamico e appoggia apertamente i miliziani fondamentalisti al confine siriano: mentre offre le basi NATO per bombardare l’ISIS, permette che le stesse basi siano stoccaggio di materiali per i terroristi di Al Nusra e per i suoi affiliati turcomanni.

Ossessionata dall’effetto domino che l’ascesa dei curdi siriani potrebbe creare sul suo territorio, si mette di traverso con i piani di Washington che punta viceversa sui curdi per porre un freno ad Assad e ai suoi alleati. Dopo aver abbattuto un aereo russo, irritato Putin e dopo aver ingaggiato guerra aperta contro l’esercito siriano, Erdogan si muove tra astuzia e necessità e prova a riallacciare i fili con la Russia e con Damasco.

La Turchia, necessaria e irrinunciabile per l’America, comincia a destare malumore. Troppo autonoma, troppo torbida, in alcuni casi addirittura ostile a programmi di lungo periodo della stessa NATO di cui fa parte.

Dov’è il punto d’equilibrio e dove la rottura?

Erdogan sa il fatto suo. Consapevole della straordinaria importanza che la Turchia riveste per gli interessi atlantici e per il fenomeno delle migrazioni in Europa, gioca al rialzo. Fortifica il potere all’interno e alza la voce con gli alleati.

Viceversa, se di Ankara non si può fare a meno, di Erdogan gli USA ne hanno già abbastanza…

Che dietro il tentato golpe ci sia l’Occidente stanco di un cane sciolto che crea problemi è verosimile, ma non scontato. Come è logico le teorie complottiste senza riscontro non trovano argini. Quel che conta viceversa è il risultato finale: la Turchia sta cambiando rapidamente. Più rapidamente di quanto si pensi. Erdogan allo stato attuale è saldamente al comando e ha l’occasione per rafforzarsi. Quanto questo sia compatibile col mondo delle alleanze di ieri, è tutto da vedere.

(foto: ndt/Alalam)