Siria: ”Proveranno a spartirsi il Paese con la scusa del federalismo”

(di Giampiero Venturi)
15/04/16

La guerra in Siria non durerà in eterno. Probabile che questo sia l’ultimo anno di combattimenti convenzionali, poi la parola passerà alla resa dei conti, alla conta dei danni e alla ricostruzione.

I colloqui di pace sono stati la prova che al di là delle convinzioni e degli obiettivi delle parti, tutti i soggetti coinvolti da tempo stanno valutando l’idea concreta di una exit strategy.

Il modello che verrà proposto con l’appoggio degli Stati Uniti sarà quello di una riforma federale del Paese, cercando di ripercorrere dal punto di vista istituzionale quanto già sperimentato in Iraq nel 2003. Gli obiettivi concreti sono tre: soddisfare le parti in campo nella misura sufficiente a far finire le ostilità; salvare la faccia; avvicinarsi quanto più possibile all’idea iniziale di smantellare lo Stato nazionale siriano.

Il quadro siriano ha però una differenza strutturale con l’Iraq: l’esito della guerra. Nell’Iraq del 2003 il plenipotenziario americano Paul Bremer, capo dell’Autorità Provvisoria della Coalizione, fu investito di un potere assoluto, paragonabile solo a MacArthur nel Giappone del ‘45. I diritti sulla ricostruzione e sul futuro ordinamento istituzionale del Paese nascevano dalla vittoria militare, che almeno nel breve periodo era incontestabile.

La nascita dell’insorgenza e la successiva sconfitta politica e militare subita in Iraq dalla Coalizione nel corso del decennio successivo diventano per assurdo secondarie. Quel che conta è che un Paese organizzato secondo la struttura monolitica del partito Baath e governato  da un presidenzialismo assoluto con amministrazione centralizzata, è stato trasformato in un insieme di parti distinte, dove sciiti, sunniti e curdi, hanno finito per spartirsi il territorio. Come questo sia avvenuto e quello che ha comportato lo abbiamo visto in questi anni, parlandone più volte su questa rubrica. La nascita dello Stato Islamico è stata possibile dal punto di vista tecnico, politico e militare anche per questo.

La crisi siriana è diversa nella sostanza. In Siria la presunta coalizione anti terrorismo è stata per lo più un messa in scena, utile a implementare prima e a coprire poi, il caos politico programmato e generato con la rivolta anti Assad, branca siriana della cosiddetta primavera araba.

Quando Raqqa sarà caduta e il grosso dei terroristi islamisti sarà transumato in altri teatri, gli unici a poter dire di aver vinto la guerra saranno innanzitutto i siriani. Con loro vanteranno crediti anche gli alleati sul campo: i russi, Hezbollah, gli iraniani e i volontari sciiti iracheni che hanno combattuto dalla parte di Assad.

Sulla scorta degli esiti del conflitto non sarà possibile imporre un nuovo assetto geopolitico alla regione, almeno finché Assad sarà protetto da Mosca. Ciò che verrà proposto su pressione USA attraverso lo strumento della mediazione ONU sarà allora un nuovo assetto istituzionale che proprio come in Iraq prenderà la via della riforma federale.

Il nodo è tutto qui.

Contestualmente a fondamenti di Diritto pubblico le forme di Stato federale che conosciamo in Occidente non sono applicabili in Medio Oriente e più in generale ai Paesi Arabi. Nella fascia che va dal Maghreb al Golfo Persico non esiste un solo Paese a base federale. La tipologia di ordinamento amministrativo più diffusa è la suddivisione in Governatorati, dove il reggente è nominato direttamente dal potere centrale. Ciò dipende da un lato da una minore maturità democratica e giuridica, dall’altra dall’esperienza politica dell’ultimo mezzo secolo. La scarsa omogeneità etnica, religiosa e sociale che caratterizza quasi tutti i Paesi arabi ha di fatto imposto modelli istituzionali rigidi dove gli equilibri si raggiungono con bilanciamenti di potere delicati o con la forza. Spesso con entrambi i sistemi. 

È uno dei motivi per cui nei Paesi arabi e in Medio Oriente non è agevole capire dove finisca il dirigismo illuminato (reale o presidenziale che sia) e dove inizi la dittatura. La differenza più evidente è quasi sempre il grado di rappresentanza che le minoranze o le varie componenti etniche e religiose riescono ad avere e il livello della temperatura sociale e delle conseguenti misure repressive.

Applicare un sistema federale in un paese arabo multiconfessionale o a base tribale è il prodromo al suo sfaldamento. La Libia di Gheddafi è l’esempio più calzante in questo senso.

Per esteso è impossibile applicare cornici costituzionali e giuridiche esogene a sistemi che affondano la loro esistenza su principi magari discutibili, ma assolutamente diversi.

In Siria con ogni probabilità verrà proposto di lasciare a Damasco il controllo formale del territorio ma di dividere il Paese per aree a base etnica. Essenzialmente i Curdi a nord est, i sunniti nel centro sud e gli alawiti lungo la costa a nord ovest.

Di fatto sarebbe una spartizione soft, sorta di percorso a mezza strada fra le intenzioni di chi ha fomentato la rivolta anti Assad, e una vittoria piena dello stesso Assad.

A questo progetto potrebbe opporsi per assurdo proprio la Turchia, finora nei panni dell’orco cattivo. L’idea di una regione autonoma governata dai curdi a ridosso dei propri turbolenti confini sudorientali non è mai piaciuta ad Ankara al punto da spingerla all’intervento diretto nella crisi siriana proprio contro le milizie curde YPG.

Viceversa il progetto piacerà agli oppositori di Assad, eredi di quei “ribelli moderati” armati dagli USA e sconfitti sul campo.

Assad sarà abbastanza forte per opporsi ad un piano di compromesso? Russia e Iran difficilmente si lasceranno sfuggire un ritorno politico ed economico dopo il coinvolgimento diretto. Accetteranno ingerenze esterne significative in un piano di pace reale?

Sulla base delle risposte sapremo quanto grande sarà stata la sconfitta della politica mediorientale di Washington degli ultimi 15 anni.

(Foto: SAA/web)