Morte in Costa d’Avorio: l’Africa sul punto di esplodere

(di Giampiero Venturi)
15/03/16

L’attentato a Grand Bassam in costa d’Avorio rivendicato da AQMI (Al Qaeda nel Maghreb islamico) non dice nulla di nuovo. Dall’apertura del “fronte africano” con gli attentati del 1998 alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania il processo di radicalizzazione dell’Islam nel continente non ha conosciuto sosta. Al Qaeda allora rivendicò gli attentati come vendetta per l’iniziativa di Clinton in Somalia (Restore Hope) e aprì la fascia del Sahara e del Sahel alla deriva jihadista.

Venti anni dopo, stesse sigle, stesso sangue ma in una cornice ormai degenerata. Ad oggi il coinvolgimento del continente nero negli scenari adiacenti all’integralismo non ha più soluzione di continuità territoriale tra l’Atlantico e il Corno d’Africa. Senegal, Sierra Leone, Mauritania, Mali, Niger, Nigeria, Ciad e Repubblica Centrafricana, fino a Kenya, Etiopia e Somalia, con modalità e intensità diverse sono testimoni di un progressivo percorso di radicamento del fondamentalismo islamico.

Per capire meglio il fenomeno dobbiamo considerare due ottiche: una endemica, legata all’Africa; una importata dall’esterno.

Nell’iconografia dell’uomo occidentale medio l’Africa è spesso dipinta come un continente remoto, lontano dalle dinamiche politiche eurasiatiche. Il baricentro politico e culturale dell’Africa in realtà è proprio la fascia alta del continente, quella che si stende in orizzontale tra l’equatore e il Mediterraneo. È bene ricordare che 10 dei 22 Stati membri della Lega Araba sono africani. Praticamente metà, considerando la sospensione dal novembre 2011 della Siria. Oltre alla riottosa cintura del Maghreb, Stati come Somalia, Sudan e Mauritania, pittoricamente africani, sono parte di quel mondo arabo che troppo in fretta consideriamo solo mediorientale.

Il dato non è secondario, anzi è il ponte di passaggio tra l’Africa e le pressioni politiche che la forgiano dall’esterno. I recenti orientamenti della Lega araba (la condanna di Hezbollah, per citare l’ultimo in ordine temporale) mettono in risalto una sempre più evidente supremazia sunnita guidata dall’Arabia Saudita. Facile immaginare la soggezione dei membri africani ai finanziamenti di Riad; ancora più facile intuirne il rilievo alla luce del peso crescente della dinastia Saud in Medio Oriente. In questo senso niente ci spiega meglio della guerra in Yemen: la coalizione araba a guida saudita riesce a coinvolgere Paesi africani come il Senegal che almeno sulla carta non dovrebbero avere interessi geopolitici nell’area. Se aggiungiamo che la coalizione è militarmente alleata ad Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), si aprono scenari inquietanti.

Rimarcare che l’”arabizzazione dell’Africa” sia andata di pari passo con la diffusione dell’integralismo nel continente è un concetto azzardato? Probabilmente no, soprattutto se prendiamo in considerazione che la capacità di penetrazione di gruppi integralisti sul territorio africano dell’ultimo decennio, ha visto prevalere proprio Al Qaeda, gruppo a sfondo ideologico wahhabita

All’evidente penetrazione islamista nel suolo africano si affianca la precarietà economica, politica e sociale di nazioni storicamente non musulmane, ma che finiscono per essere bacino naturale per il proselitismo integralista, come già avvenuto nelle grandi aree urbane mediorientali (i Fratelli Musulmani al Cairo, per esempio).

I casi più evidenti sono il Mali e la Nigeria teatri di guerre civili sanguinose. La guerra in Mali condotta nel 2012 dal MLNA, gli indipendentisti dell’Azawad, è diventata poi appannaggio di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, fino a rendere necessario l’intervento francese del 2013. 

Quella in Nigeria, ancora in corso, apre infinite retrospettive sul fenomeno islamista di Boko Haram, “operativo” ormai dal 2000 e dal 2015 affiliato allo Stato Islamico.

Proprio sulle connessioni con lo Stato Islamico è bene puntualizzare. Da più fonti si evidenzia la rivalità fra Al Qaeda e ISIS che comporterebbe lotte intestine alla galassia islamista, in una sorta di guerra civile tutta jihadista. È di queste ore la notizia dell’ennesimo avvistamento di Khaled Abou al-Abbas meglio conosciuto come Mokhtar Belmokhtar (o come “il Guercio”), capo di Al Mourabitoun, gruppo jihadista integrato ad AQMI appunto. Sue sono le responsabilità degli attentati più spettacolari in Africa Occidentale negli ultimi tre anni: a In Aménas in Algeria, a Agadez e Arlit in Niger, negli hotel di Bamako in Mali, a Ouagadougou in Burkina Faso, per quasi 150 morti complessivi. Il leader terrorista sarebbe stato avvistato in Libia, dove lo Stato Islamico pare abbia più fascino di Al Qaeda. Forse non è un caso e le rivalità fra i due cartelli terroristici sono solo legate alla leadership e non alle strategie e agli obiettivi di fondo.

Lo sosteniamo da molto tempo su questa rubrica: piuttosto che esaltarne le differenze interne, sarebbe bene considerare la galassia jihadista nel suo complesso, facendo luce sui giochi geopolitici delle potenze che la sostengono.

Emblematiche al riguardo le notizie che arrivano da Algeri: il leader terrorista Mouloud Baal, sarebbe stato ucciso in un’operazione dell’esercito nei pressi della capitale. Ex GIA, Baal sarebbe stato prima personaggio di spicco di AQIM per poi aderire al Califfato. Il suo curriculum spiega più di tante analisi…

Nell’indifferenza generale, in Costa d’Avorio ora contiamo 18 morti per l’attentato a Grand Bassam. Intanto, spinta dai suoi danti causa esterni, l’onda lunga del fondamentalismo continua a  penetrare tra l’Atlantico e il Mar Rosso, su basi sociali e statuali fradicie. Ogni giorno di più, in silenzio. Da Dakar all’Eritrea (nel mirino politico economico degli Emirati), da Bamako al Sudan arabo di Al Bashir; dagli Stati nigeriani del Nord ad Al Shabab in Somalia… il radicalismo anti occidentale in Africa cresce in modo esponenziale.

Il dato agghiacciante è che è lo stesso Occidente ad alimentarne più o meno indirettamente i flussi.

(Foto: Armée de terre/Armée ivoirienne)

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