Mesopotamia addio: la fine dell’Iraq come stato unitario

(di Giampiero Venturi)
11/06/15

La cosiddetta controffensiva su Ramadi delle Forze Armate irachene, ripropone uno scenario già visto in Iraq. ISIS o non ISIS, che una provincia irachena sia fuori dal controllo del potere centrale, dalla caduta di Saddam in poi, non sembra una novità. In fondo, senza la morsa del regime che l’ha tenuto insieme per 25 anni, il Paese si sarebbe diviso secondo le tre anime che lo compongono: i sunniti al centro, gli sciiti a sud e i curdi a nord. 

Nel dicembre dell’85, nel momento più difficile della guerra Iran-Iraq, gli iraniani in piena controffensiva in territorio iracheno godevano dell’appoggio degli sciiti del Sud. Alla periferia di Bassora e sullo Shatt el Arab, Iraqi tv mostrava trincee e corpi di pasdaran iraniani morti a mucchi negli assalti su moto enduro contro i T 55 iracheni. Quando la controffensiva si fermò del tutto, il mondo prese fiato e rimase a guardare. Come Saddam regolò i conti con gli sciiti durante e dopo la guerra, viene da sé. Furono baci e abbracci…

Negli stessi anni l’Iran si era astenuto da attacchi su vasta scala nell’Iraq settentrionale, nonostante l’area fosse in odore di ribellione a Baghdad. L’ingresso nel Kurdistan iracheno avrebbe generato presumibilmente anche la sollevazione dei curdi iraniani, parte della nazione curda a cavallo di quattro Paesi, Siria e Turchia comprese.

Saddam, che nel regolare i conti aveva un talento particolare, si dedicò anche ai curdi, nonostante fossero stati indirettamente utili alla causa della guerra contro Khomeini.

Con l’istituzione nel ’91 delle due no fly zone dopo la Prima Guerra del Golfo, l’effettivo controllo di Baghdad sul territorio nazionale fu ulteriormente limitato. Soprattutto a nord dove una certa autonomia politica tra Mosul e Kirkuk era ormai un fatto, benché Turchia e Siria premessero per frenare le ambizioni curde (Damasco batteva cassa per aver partecipato alla coalizione anti Saddam).

Gli effetti lunghi della Seconda guerra del Golfo non hanno portato nulla di nuovo sul piano qualitativo oltre ad un apprezzabile peggioramento. Il virus di laboratorio chiamato ISIS non ha fatto altro che insinuarsi nei vuoti di potere e nelle maglie delle alleanze alterne fra tribù, clan e confessioni diverse.

Per Ramadi vale lo stesso. Posta sull’Eufrate e sull’asse Falluja-Abu Grahib (famose per le bombe al fosforo e i campi di prigionia, prima iracheni poi USA), è strategica da sempre. Unica porta verso Damasco e Amman attraverso il deserto, cento anni fa era già teatro di battaglie fra brits e Ottomani; il focolaio appena acceso è il terzo grande scontro dell’ultimo decennio dopo quelli fra insorgenti e americani nell’era post Saddam. La sua instabilità è endemica.

La notizia della preparazione di una controffensiva da parte dell’esercito iracheno fa sorridere, non tanto sul piano militare di per sé già comico, quanto su quello politico.

Lo stesso era successo Tikrit, città natale di Saddam e crocevia importante tra la capitale e il nord petrolifero. Il ritorno al controllo governativo nella prima metà del 2015 è stato fittizio. Più che un successo dell’esercito iracheno in franchising USA, è stata una vetrina mediatica con buona parte dello sforzo in realtà sostenuto dalle milizie sciite del Sud, nemiche dei sunniti dell’ISIS e soprattutto degli ex fedelissimi del regime.

I rancori fra ex dirigenti del Bath, il partito-Stato di Saddam, molti dei quali originari di Tikrit e le bande sciite hanno trasformato poi lo scontro in regolamento di conti e faide locali, a riprova del fatto che l’Iraq come Stato unitario non esiste più. Il lato comico della faccenda è che la città di Saddam ufficialmente sarebbe stata liberata da soldati armati e vestiti da quelli che lo hanno deposto.

Ora nell’area di Ramadi, nella base di Taqaddum, siamo in trepidante attesa per l’arrivo di 500 istruttori americani. Sulla carta sarebbero utili alla selezione di bersagli nei raid aerei. Importante però è non chiamarli combattenti.

Ormai è un andazzo consolidato. Istruttori e consiglieri che affiancano i locali in un’escalation senza futuro. Ricorda molto il Vietnam del ’62, quando la paura di ammettere che ci fosse una guerra ne creò una peggiore. L’aggravante di oggi è che in Indocina non c’erano precedenti. In Iraq invece la guerra c’è già stata ed è stata una catastrofe.

Ramadi o non Ramadi, ISIS non ISIS, l’Iraq è perduto. Precisamente e paradossalmente dal giorno in cui è caduto Saddam.

(foto: US DoD)