L’immigrazione tra geopolitica e ideologia

(di Giampiero Venturi)
26/05/15

Dall’uomo di Neanderthal in poi i flussi migratori si regolano su un assioma: si associano all’idea di andare da qualche parte per trovarci qualcosa. Lo capisce anche uno sciocco: nessuno lascerebbe casa sua senza la prospettiva di trovarsi meglio. Pacifici o meno che siano, vale per il Mediterraneo e vale per il mondo intero. Dai Romani ai corsari macedoni, dai Vichinghi ai Mongoli, dal Titanic ai boat people in Cambogia: gli umani si spostano solo se mossi da una necessità o un’aspettativa.

Capire quali siano i fattori che contribuiscono a crearle non è complicato.

La prima motivazione è sicuramente economica. La principale direttrice delle rotte migratorie ruota sull’asse “fame-opulenza” con direzione dalla prima alla seconda. È evidente che si parta secondo il principio “vado dove si mangia” e non secondo quello “vado dove si digiuna”. È il motivo per cui gli Irlandesi andavano in America e non in Africa o per cui a vendere le rose ci siano più Bengalesi a Roma che Italiani a Dacca.

È stato così fin dalla notte dei tempi: flussi pacifici (emigrazione) da una parte; flussi violenti (scorrerie e invasioni) dall’altra.

La seconda motivazione è di natura politica. Le masse umane partono da dove ci sono problemi (guerre e persecuzioni) per approdare dove ce ne sono meno. È uno dei motivi per cui si trovano molti tassisti curdi a Oslo ma non se ne trova nemmeno uno norvegese a Mosul.

Le differenze dei sistemi penali e la percezione di libertà consolidano questa motivazione (un conto è vivere dove il furto è punito con l’amputazione, un conto dove è depenalizzato…), ma di solito non sono rilevanti.

Fatte salve le motivazioni particolari o personali che orientano spostamenti umani numericamente irrilevanti, è bene però sottolineare che raggruppare le rotte migratorie in base alle sole motivazioni non sempre offre un quadro esaustivo.

I fenomeni migratori non sono tutti uguali. Il “chi”, il “quando” e il “dove” sono variabili essenziali: ci aiutano a capire le implicazioni sociali e geopolitiche ben oltre lo sguardo ideologico con cui spesso si generalizzano le cronache. Quello sguardo malizioso che assegna i punti di partenza e quelli di arrivo con la semplice distinzione fra popoli poveri e popoli ricchi.

L’esempio più eclatante è il riferimento alle emigrazioni di massa italiane nel primo Novecento e nel Secondo Dopoguerra. Non di rado vengono paragonate all’esodo verso l’Europa occidentale dei nostri tempi. Il famoso “Quando gli Albanesi eravamo noi…” per capirci.

Per stare all’esempio almeno per tre ragioni il confronto non regge.

Le migrazioni che hanno spopolato il Bel Paese entravano in contatto con continenti “nuovi”. Stati Uniti, Canada, Argentina e Australia ancora oggi hanno un rapporto popolazione/superficie molto basso rispetto alla media europea. Non ci vuole un genio per capire che milioni di persone su un territorio semi-vergine generano un attrito minore che milioni di persone su territori esausti. Un cosa è riempire una station wagon vuota, altra storia una 500 già carica. Visto lo scarso impatto numerico sul territorio, emendare l’analisi citando le vergognose e tristi mattanze delle popolazioni indigene (Pellerossa, Indios, Precolombiani, Aborigeni) gioverebbe a poco.

Va detto poi che i migranti italiani del XIX° e XX° secolo insistevano su lidi abitati da cristiani. A tutt’oggi non risulta che Brooklyn o Montevideo fossero mete di pellegrinaggio islamiche o hindu. Spesso anzi le comunità già inserite avevano orientamento cattolico. È il caso del New England irlandese, del Sudamerica spagnolo o del Quebec francese. Per sostenere che il grado di interazione tra Italiani e Spagnoli sia la stessa che c’è fra Austriaci e Senegalesi ci vuole malafade… Se usi e costumi diversi sono la bellezza del mondo, non sempre sono una scorciatoia per una facile convivenza. Questo nel rispetto massimo di tutti, s’intende.

Anche ricordando che gli Italiani hanno esportato molto malaffare, trasferendo tra spaghetti e mandolini molti modi di rapportarsi non sempre esempio di legalità, bisognerebbe poi specificare. Se il Padrino I, II e III sono Cosa Nostra e non di qualcun altro, è anche vero che alle eccellenze nel “malaffare” se ne sono affiancate altre nel generico “fare”. Grattacieli, strade e città di mezzo mondo ringraziano.

Sottolinearlo senza retorica è difficilissimo. Non sottolinearlo è disonesto.

Ci sono migrazioni e migrazioni?

Giudicando i testamenti culturali delle civiltà greca, romana o araba al confronto con quella mongola per esempio, parrebbe di sì.

Confrontarsi con onestà intellettuale sul tema migrazioni ci aiuta a capirne il valore in termini politici, antropologici e sociali. Ci aiuta a capire che le masse in movimento e trasformazioni sono da sempre il motore dell’evoluzione umana. Le implicazioni geopolitiche ad esse correlate sono infinite. Per citare una fucina sempre attiva in questo senso, basta pensare ai Balcani: equilibri politici, strappi, dominazioni, recriminazioni, guerre aperte, secessioni… la politica micro e macroscopica degli ultimi secoli si è di fatto regolata sui flussi migratori. L’ultimo esempio in ordine cronologico è il confronto tra Serbi e Albanesi sul Kosovo.

Pensare alle migrazioni senza fare distinzioni invece serve a poco. Reso onore all’approccio ecumenico e umanitario, sarebbe bene grattare via la patina ideologica che inquina ogni altro tipo di analisi.

Chiudersi in un dualismo Nord-Sud del mondo spesso sottintende l’assunto ideologico “sfruttatori-sfruttati”, valido per molte questioni ma non in senso assoluto.

Il pregiudizio e la generalizzazione non aiutano nessuno. Men che meno chi lascia casa sua con la prospettiva di trovarsi meglio.

Giampiero Venturi

(nella foto di apertura un UH-60 Black Hawk di pattuglia, a seguire controlli in un tunnel di scolo delle acque tra USA e Messico - fonte: US Department of Homeland Security)