38° parallelo: la guerra senza fine

(di Giampiero Venturi)
07/08/16

Il secondo dopoguerra ci ha insegnato a distinguere i conflitti anche in base alla temperatura. Alla guerra combattuta sul campo abbiamo imparato a sovrapporre il concetto di “guerra fredda” figlia di una contrapposizione ideologica e al tempo stesso madre di uno stato di allarme permanente.

Quasi la totalità delle "guerre calde” tradizionali  e dei conflitti sospesi della seconda metà del '900 ha preso forma intorno alle regole di una rigida contrapposizone in blocchi: da una parte chi rientrava sotto la protezione USA, dall'altra chi faceva parte della sfera d'influenza dell'Unione Sovietica.

Schema a sé fa il caso della penisola coreana, esempio forse unico per durata e contesto: lo scontro che a rigor di Storia ha consacrato militarmente l'idea di Guerra fredda, paradossalmente ha finito col sopravviverle; una guerra non più combattuta ma ufficialmente ancora in corso, legata ad un armistizio (quello del ’53) che non è mai maturato in un vero e proprio trattato di pace.

La guerra né calda né fredda tra Seul e Pyongyang è di fatto lo scontro più vecchio del globo, apparentemente immune da ogni cataclisma politico o semplice evoluzione dei tempi. Anche in termini di propaganda e linguaggio, il contenzioso è rimasto congelato negli anni, indifferente al cambio delle stagioni.

Se il confronto è rimasto strisciante senza eventi nel bene o nel male capaci di porre fine allo stallo, è anche vero però che scaramucce e impennate di tensione non sono mai mancate e che il ricordo dei 2 milioni di morti della guerra del 1950-’53 ha sempre proiettato la crisi coreana su scenari catastrofici. L'apocalisse sul 38° parallelo si poggia infatti non solo sulle continue minacce di escalation nucleare ma anche sul ricordo di una tra le più violente e meno conosciute guerre della Storia, a tutt’oggi l’unico scontro diretto su vasta scala tra superpotenze non delegato a Paesi terzi.

L’impasse surreale seguito alla guerra di allora di cui ancora oggi siamo testimoni, ci impone quindi una domanda di fondo. Il 38° parallelo è una pagina di Storia, ultima propaggine di un mondo antico, o serve ancora?

Partendo dal dato che lo schieramento di forze in assetto di guerra sulla linea di frizione tra le due Coree è uno scenario unico per dimensioni (solo l’attrito tra India e Pakistan in Kashmir regge il confronto) possiamo rispondere sotto tre angolazioni.

Se prendiamo in esame la guerra del ’50-’53 in senso stretto è evidente che lo scontro sia storicamente superato. Linea di demarcazione tra la Seconda guerra mondiale e la paura della Terza, la Guerra di Corea è stato l’evento con cui il mondo occidentale a guida americana ha identificato ufficialmente nel comunismo il nuovo nemico globale. La fine della Guerra fredda ha quindi svuotato la penisola coreana di contenuti e interesse, declassando il Nord a fortezza grottesca destinata presto o tardi a uscire di scena.

Se consideriamo invece la funzione strategica della Corea del Nord al di là del gelo coi cugini del Sud, il discorso cambia. L’esistenza del regime di Pyongyang permette agli Stati Uniti un posizionamento permanente nel Pacifico asiatico con un potenziale offensivo ben superiore alla totalità delle basi presenti negli altri Paesi alleati dell’area. La presenza americana giustificata negli anni ’80 da logiche anti sovietiche, oggi assume valore solo in virtù di un serio rischio di crisi politico militare con possibile complicazione nucleare, in un angolo di mondo tra l’altro a forte trazione industriale. È sostenibile quindi ritenere che il regime di Kim Jong-un sia utile ad un fine strategico più ampio, secondo l’antica legge “se c’è un nemico, ho il dovere di difendermi”.

L’importanza di Pyongyang, per forza di cose sminuita con l’implosione del blocco comunista nel ’91 e col successivo inizio delle riforme economiche in Cina, si è di nuovo rivalutata nell’ultimo decennio, lasso di tempo in cui non a caso le crisi fra Coree si sono spesso riacutizzate. La rinascita della Russia e l’evoluzione di Pechino a rango di potenza hanno trasformato quindi Seul in una piazza irrinunciabile per gli schemi del Pentagono, il cui attuale interesse per una smilitarizzazione dell’area, al di là dei proclami, è pressoché nullo.

Ultima ma non meno importante questione è il ruolo attivo della stessa Cina, da sempre fratello maggiore del regime nordcoreano. Ai tempi di Mao la linea di continuità tra Pechino e Pyongyang era ideologica. Oggi le velleità geopolitiche cinesi investono di un ruolo nuovo la Corea comunista, eletta a laboratorio sperimentale di sistemi d’arma e provocazioni diplomatiche. Ben oltre le dichiarazioni ufficiali, tollerare e foraggiare le farse di Kim Jong-un offre alla Cina un termometro della tolleranza americana, senza un coinvolgimento diretto.

La Russia intanto osserva e ribadisce la sua presenza nelle Kurili rivendicate dal Giappone. Semmai fosse necessario, tutto questo ci ricorda che il Pacifico sembra tornato di moda.

In fondo USA, Cina e Russia, maestri burattinai della Guerra di Corea, sanno benissimo che una volta archiviata l’eterna partita tra Seul e Pyongyang, per tornare a soffiare sul fuoco bisognerebbe accenderne un altro.

La guerra caldo-fredda tra cugini non può che continuare.

(foto: US DoD / US Army)