Reportage Somalia: EUTM-S e l’Esercito somalo - “...eravamo italiani africani e ne eravamo orgogliosi!”

(di Giusy Federici)
20/08/18

“Per oggi avevamo previsto un’esercitazione. La farà anche lei, anche se è appena arrivata. Così si rende subito conto di come si vive qui”, mi dice il generale Matteo Spreafico, comandante della Missione EUTM Somalia, dopo le presentazioni di rito. Siamo nel compound che ospita gli italiani e gli altri europei della missione, a sua volta dentro l’aeroporto di Mogadiscio, l’immensa “bolla di sicurezza” rispetto all’esterno, dove si spara ogni giorno per un minimo contenzioso, i somali tra loro e qualcuno contro i check point a protezione, senza contare gli attacchi di Al Shabaab, veicoli esplosivi e suicidi compresi.

Intorno alle 2 del pomeriggio, sono seduta fuori dal mio alloggio: a quell’ora il sole picchia e mi godo un po’ di ombra grazie alla speciale copertura antimortaio, aggiunta un anno fa, dopo che i colpi sono arrivati anche qui… In lontananza sento degli spari, inconfondibili, è chiaramente un Kalashnikov. Dico, tra me e me: “Ecco, l’esercitazione sta iniziando… fantastico, simulano anche l’attacco con gli Ak!”. In effetti dopo 10 minuti viene dato l’allarme e inizia l’esercitazione con le procedure di sicurezza che ho appreso durante l’apposito briefing. Ci si ritrova tutti nel bunker, miliari e civili, secondo quanto stabilito, ognuno con il proprio ruolo e posto assegnato. Si simula un attacco importante. 

“Giusy, hai sentito che ci sono stati dei colpi?”, mi chiede il maggiore Marco Specchia, il P.I. (addetto alla Pubblica Informazione, ndr) della missione, appena terminato il tutto. “Certo” - rispondo - “siete stati bravissimi, era molto credibile”. 

“Guarda che erano colpi veri, in questo momento abbiamo poche notizie, ma si dice che abbiano sparato a uno dei check point all’ingresso dell’aeroporto. Stiamo verificando”. Non ci credo. Ci vorranno due giorni per convincermi che quei colpi non erano compresi nell'esercitazione… Welcome to Mogadishu!

European Union Training Mission Somalia, EUTM-S, è la missione di addestramento dell’Unione Europea in Somalia. L’Italia dà il maggior contributo in uomini, donne e mezzi impiegati (116 rispetto ai 16 della Spagna, che è seconda per presenze) e dal 2014 ha ottenuto la lead. Il comandante di EUTM-S è il generale Matteo Spreafico (vedi intervista).

Nell’area della missione, l’International Campus, convivono i militari di otto Paesi oltre l’Italia: Spagna, Serbia, Finlandia, Gran Bretagna, Svezia, Portogallo, Romania, Ungheria, i civili di altre missioni dell’Unione Europea, il personale dell’Ambasciata Italiana e di altre nazioni. Siamo dentro il Mogadiscio International Airport (MIA), il cui controllo è affidato all’African Union Mission in Somalia (AMISOM). Qui si cerca di dare quel minimo di confort a chi sta in giro tutti i giorni a rischiare la vita, si cerca di curare le strutture che, affacciandosi sul mare, hanno bisogno di una continua manutenzione perché la salsedine e la finissima sabbia corrodono non solo i muri, ma anche le armi e i mezzi.

Ogni nazione si è portata un pezzo di madre Patria: ad esempio, noi abbiamo Casa Italia, curata dall’Italian National Support Element comandata dal colonnello Pino Rossi, i finlandesi una piccola sauna, etc. E c’è la chiesa, dentro una tenda nel parcheggio dei Lince, un paracadute bianco a fare da sfondo all’altare, ai lati l’arcangelo san Michele e un cippo che commemora i soldati caduti in Somalia. Se ne occupa don Stefano Tollu, il cappellano militare dell'Aeronautica.

I nostri soldati fanno questo: rischiano la vita per aiutare i somali nella loro transizione da uno stato di caos, dopo decenni di guerra civile, alla normalità. Li aiutano a ricostruire il loro futuro come il loro passato, a ridare loro una nazione, a rifondare l’Esercito ma anche la loro identità. E, chiariamolo, noi come Italia e come Unione europea, siamo qui perché lo vogliono i somali. Che, addirittura, vorrebbero fossimo più presenti, perché nonostante quel che si pensi in Italia, i somali non ci vedono come ex colonizzatori, ma come gente a cui abbiamo dato senza tanto chiedere. I più anziani, che parlano italiano perché hanno frequentato le scuole con i docenti della nostra madre Patria, ce lo dicono senza tanti complimenti: dopo la fine del protettorato, negli anni ’60, dovevate rimanere. Si sentono persino un po’ traditi. I più giovani ne sanno di meno, molti parlano turco al posto dell’italiano, perché qui la Turchia, (come del resto gli Emirati arabi) sta investendo molto nelle infrastrutture, ha costruito un’enorme base militare e la sua ambasciata è nel centro di Mogadiscio, a pochi passi da dove era la nostra che invece cade a pezzi come gran parte dell’eredità coloniale italiana. L’inglese è conosciuto ovunque e molte realtà imprenditoriali statunitensi e inglesi stanno investendo in loco. L’Italia in questo settore non c’è, probabilmente sempre per quel politically correct per il quale investire, da parte di imprenditori italiani in Somalia, vorrebbe dire neo-colonialismo. Forse studiare la storia della Somalia o, meglio, farsela raccontare dai somali stessi e chiedere a loro cosa vorrebbero dal nostro Paese, non sarebbe male.

In questo momento la Somalia è un luogo insicuro. Mogadiscio non fa eccezione. In una delle uscite per la città, ero sul Lince con i ragazzi del Security Support Element, del 7° reggimento alpini di Belluno. Sono i famosi Guardian Angels, trasportano le persone nei vari luoghi, fanno sicurezza agli istruttori del GDTC e ai mentor a Villa Gashandigha, il corrispettivo somalo del nostro stato maggiore della Difesa. Sono sempre loro a fornire sicurezza all’interno dell’IC in caso di allarme. Il Close Protection Team, con i ranger del 4° reggimento alpini paracadutisti di Verona, è invece responsabile della sicurezza del comandante. Ragazzi straordinari, tutti.

Durante il viaggio, è arrivata via radio la comunicazione che nella strada che dovevamo percorrere c’era appena stata un’esplosione e si consigliava un percorso alternativo. Ogni cosa che sembra anomala mette in allarme, che sia la gente che al passaggio guarda in un’altra direzione o troppo come troppo poco traffico nella nostra direzione di marcia.

Questa è Mogadiscio. E questa è la vita che fanno i nostri soldati, sempre in tensione costante perché l’agguato è dietro l’angolo. Senza soluzione di continuità. Però la Somalia vuole tornare a una normalità, lo si vede dalle piccole cose come un bancomat, alle richieste di ricostituire un Esercito in grado di garantire nuovamente la sovranità. E lo ha chiesto, in primis agli italiani che ci mettono le capacità, oltre al cuore e tutto questo viene riconosciuto in sede internazionale, pur nel silenzio mediatico nostrano.

Addestramento

La missione EUTM-S è fondamentalmente di tipo addestrativo. Ho avuto la possibilità di visitare il GDTC: General Dhagabadan Training Centre, the EUTM-S training location: qui istruttori di varia nazionalità (con me in mattinata c’erano italiani, finlandesi e spagnoli ) formano i soldati che poi entreranno nell’esercito somalo. Negli anni sono stati 5.774 i militari formati, 130 quelli in addestramento.

All’ingresso tutti vengono controllati dai Guardian Angels, anche gli allievi.

L’esercito somalo gestisce la parte del GTDC-1. “Quando qualcuno vuole arruolarsi, viene qui”, il commento del generale Mohamed Mohamud Saney, che comanda la struttura e che parla la nostra lingua. Il centro di addestramento GDTC-2 è invece sotto responsabilità di EUTM-S e forma soldati semplici, qualche sottufficiale e i futuri addestratori.

L’addestramento della mattina, dopo la parte teorica, è stato sulla medicina tattica da combattimento, dal trasporto del ferito in zona sicura mentre intorno ti sparano, alla gestione dell’emorragia massiva con un rudimentale tourniquet, “perché in emergenza non sempre hai i dispositivi adeguati, spesso devi agire con quello che hai a disposizione”, osserva uno dei trainers italiani.

L’arruolamento, in Somalia, è su base volontaria.

Si inizia dall’abc, dall’inquadramento, fino all’uso delle armi. È italiano, un ufficiale dei carabinieri, il “mentor” di EUTM-S che sta collaborando con i vertici militari somali per redigere un nuovo codice di comportamento militare, quell’etica di base per cui si riconosce un soldato.

Mohamed Hussein Iman, 28 anni e 5 figli e Aden Mohamed Diriye, 30 anni e 6 figli, sono i due soldati che hanno voluto spiegare il perché della loro scelta. Entrambi di Mogadiscio, sono due ragazzi consapevoli che per pacificare la Somalia bisogna mettersi in gioco e scegliere da che parte stare.

“Mio padre è un ascar, quindi mi è sembrato naturale arruolarmi”, il commento di Mohamed. Per noi italiani il termine ascar è evocativo di un tempo che fu, mentre in realtà la parola, semplicemente, significa “soldato”. Infatti, “Ho sentito parlare degli ascari e dell’Italia, ma non ne so tanto”, dice il ragazzo. Nessuno, invece, nella famiglia di Aden, è militare, però “mi sono arruolato perché ho capito che la Nazione ha bisogno di un esercito, che serve per la stabilizzazione del Paese e per la pace”, osserva. Quel che si percepisce è la voglia di normalità da parte di questi ragazzi, che sono giovanissimi e hanno già una famiglia, ma hanno deciso di impegnarsi in prima persona. E sono felici di partecipare al percorso di stabilizzazione della Somalia e di farlo attraverso l’Esercito.

Parlare di stabilizzazione della Somalia, in questo momento, significa anche sconfiggere o quantomeno ridimensionare il banditismo sotto forma di terrore di Al Shabaab, che, in certe frange della popolazione, quella più povera e quella maggiormente cooptata dalle scuole coraniche estremiste (non somale!) dall’inizio della guerra civile, ha trovato terreno felice nel sostituirsi a un governo che non esisteva più se non nominalmente. Oggi, con un governo ricostituito, che per quanto fragile è se non altro un interlocutore con cui interfacciarsi anche a livello internazionale, c’è speranza anche se la strada è tutta in salita.

“Mio fratello è rimasto ucciso in uno scontro con Al Shabaab”, dice Aden e allora capisci che oltre alla voglia di pace c’è un’ulteriore, forte motivazione per indossare l’uniforme e imbracciare un’arma. Loro, appena entrati nell’esercito, sanno benissimo che da un momento all’altro potrebbero morire per la Nazione. E questo succede spesso. Non c’è un giorno che a Mogadiscio non ci sia un’esplosione e un poliziotto, un militare, un civile rimangano uccisi sul terreno.

I ragazzi, prima, hanno seguito un corso curato dagli Emirati arabi in un altro centro di addestramento. Ma trovano il training con gli istruttori di EUTM-S “decisamente migliore, molto più organizzato e professionale”. Si rendono conto che sono loro gli unici che possono stabilizzare il Paese: dall’interno.

Una volta quello somalo, prima della guerra civile, era uno dei migliori eserciti al mondo, dove le donne avevano il proprio ruolo, importante e operativo. Nel 1974 qui c’è stata la prima donna pilota ma da prima esisteva il reclutamento femminile, in un periodo in cui in Italia nemmeno si discuteva, o quasi, se le donne potessero entrare o no nelle forze armate. Per loro, invece, è normale conciliare le stellette con la famiglia e su base volontaria come gli uomini. Ad esempio, Ruun Diriye Qutur, sottufficiale e Qadro Jaamac Mohamed, graduato di truppa. Le motivazioni sono le stesse degli uomini: “Amo la Somalia, mi sono arruolata per contribuire alla stabilità e sicurezza del mio Paese”, dicono. Ruun è figlia di un militare, Qadro no. Sono rispettate al pari degli uomini, il salario è lo stesso come del resto i compiti. Sono soldati, ma anche mogli e madri: Ruun ha sette figli, Qadro tre, ma è più giovane e ne avrà altri. Non è semplice. “È una sfida, lo sappiamo, ma siamo convinte che dobbiamo fare il possibile per la Nazione. È difficile servire l’esercito e la Nazione e portare avanti la famiglia, ma se vuoi lo puoi fare”, affermano.

Se per loro è una sfida, per noi è una lezione, se non altro di amor patrio.

Villa Gashandiga

Villa Gashandiga è il quartier generale del ministro della Difesa e dello stato maggiore di Esercito e Difesa in Somalia. È importante passare da qui per capire come si lavora, italiani, europei e somali. Oltre alla parte di training, dove EUTM-S addestra i soldati fino al livello compagnia, combattimento compreso, nonché la formazione dei futuri addestratori, c’è tutta la parte di advisoring che arriva fino al capo di stato maggiore di Esercito e Difesa e, a volte, anche allo stesso ministro della Difesa, perché l’Unione europea ci tiene ad interfacciarsi con tutte le parti.

Qui si danno consigli per rimettere in sesto le forze armate somale, si fa pianificazione e condotta a livello strategico. Varie le palazzine, che contengono i vari aspetti della Difesa, compreso il personale e i trasporti. La palazzina C è una di quelle strutture realizzate dall’Unione europea, inaugurata a dicembre 2017 “Sono aule didattiche costruite con i fondi europei. Alcune hanno i computer, si fa formazione. Sono state pensate per il ministero della Difesa ma sono utilizzate anche dalle forze armate somale per varie attività, sia per i militari che per i civili. A febbraio 2018, ad esempio, qui è stato organizzato un mini corso di stato maggiore per alcuni ufficiali: un paio di settimane per insegnare loro le tecniche base di lavoro di staff, pianificazione e condotta” - spiega il colonnello Stefano Santoro mentre mi indica il colonnello Osman - “Il responsabile delle relazioni con l’esterno, uno dei nostri punti di riferimento quando c’è da risolvere qualche problema. Con i fondi europei, tra le varie cose, abbiamo sistemato anche l’ingresso principale. Ci sarebbero ancora tanti lavori da fare, ad esempio un’uscita di emergenza, che qui manca. Stiamo chiedendo all’Unione europea di finanziare questo nostro progetto, come di ricostruire il muro di cinta per aumentare la sicurezza passiva di Villa Gashandiga, una richiesta specifica dei somali. Noi accogliamo le loro richieste e cerchiamo di trasformarle, pur con grandi difficoltà, in progetti per poter avere i fondi”.

In un altro stabile c’è una “cabina di controllo” dove gli italiani spiegano i sistemi informatici per un minimo di monitoraggio sul territorio e che è diventata anche un’opportunità di lavoro. “Non interveniamo con il nostro modo di approccio alle tematiche, ma ci immedesimiamo in quella che è la loro mentalità. Ci si viene incontro. E cosi otteniamo dei risultati”, dice l’ufficiale italiano che si occupa di questa parte.

A Villa Gashandiga tutti i militari, di ogni grado, parlano italiano. Abbiamo fatto una chiacchierata con due ufficiali dello Stato maggiore della Difesa...

In Italia sono andato per mio conto, lì ho due sorelle e un fratello, sono rimasto 8 anni. La vostra lingua l’ho studiata qui, a scuola, dove ho avuto una buona maestra”, dice uno dei due ufficiali. “Facciamo quel che possiamo, c’è sempre l’aiuto che gli italiani e gli europei offrono, ci vorrebbe di più, però è un buon inizio. A volte penso che noi non stiamo chiedendo nel modo giusto, che non specifichiamo quel che vogliamo all’Europa, che poniamo la domanda sbagliata”.

Quale sarebbe la domanda giusta?

La domanda giusta dovrebbe essere che gli europei devono aiutarci a crescere mentalmente più che economicamente. Come dice quel famoso proverbio, è meglio insegnare a pescare che dare il pesce. Forse oggi l’Unione europea sta a metà dando sia il pesce che la canna da pesca. Bisogna essere onesti: penso che sia meglio, per il mio Paese, che l’Italia - due nazioni tradizionalmente legate, possiamo dire che siamo fratelli - sia più presente. Però se non facciamo le domande giuste, l’Italia non saprà darci quel che vogliamo. Qualche volta l’Italia, visto che eravamo una colonia, quindi eravamo italiani, potrebbe presentare la Somalia al posto nostro in contesto internazionale. E l’Unione europea non credo si opponga, facendo parte l’Italia della stessa Ue. Il vostro Paese può consigliarci su come agire, può darci delle direzioni, nell’ambito Ue”.

Il problema, in Italia, è proprio quello: la Somalia è una ex colonia e si teme che la cosa verrebbe vista in chiave neoconialista, la questione a livello politico è delicata.

A volte siamo noi somali a non farci capire. Però io posso dire con certezza che gli italiani e l’Italia sono ben visti in Somalia, per questo può dare di più. L’ambasciata, il consolato italiano a Mogadiscio è un bel palazzo, disabitato (nel centro città, ndr). Bisogna rischiare, venire e integrarsi con il popolo. Si dice che non si va per questioni di sicurezza, ma la sicurezza non migliorerà se l’ambasciata resta dentro l’aeroporto. Se l’ambasciata e il consolato si trasferissero lì, magari per i primi mesi anche solo per qualche ora al giorno, sarebbe una bella cosa. Del resto ci sono i militari, che possono difendere. Ovunque nel mondo, i vostri soldati hanno difeso l’Italia con onore, non posso pensare che non possano farlo qui a Mogadiscio. Se gli italiani facessero quel passo avanti, probabilmente anche gli altri europei li seguirebbero”.

Oggi solo i turchi hanno l’ambasciata in centro a Mogadiscio, una bella sede, vicino al porto.

Secondo il mio punto di vista - continua il maggiore - oggi i turchi stanno ricoprendo un ruolo che dovrebbe essere dell’Italia, che avrebbe dovuto arrivare per prima, perché ci sono tanti italiani che sono morti per la Somalia, anche 60 anni fa. E quella loro morte non deve essere vana. Io non dico che sarà una passeggiata, però dovrebbe esserci almeno l’idea”.

La Somalia è ricchissima di risorse interne, oltre che sulla costa, ha una terra estremamente fertile, la pastorizia è una voce economica importante tanto che il Paese è stato esportatore di carne in tutta l’Africa. Senza contare le ricchezze del suolo.

Soprattutto, le ricchezze umane. Il somalo, quando decide di rimboccarsi le maniche, è un gran lavoratore…”, osserva il colonnello di EUTM-S Stefano Santoro.

È vero quel che dice il colonnello Santoro. Ma l’Italia può darci l’incentivo. Visto che possiamo farcela, sarà una spinta per andare avanti. E anche le nuove generazioni, sono facili da guidare. Quelli che sappiamo com’era la Somalia 50 anni fa, possiamo essere la guida. C’è ancora bisogno di un leader, ma la comunità può diventare leader di se stessa. Il somalo, di per sé, giovane o meno, può avere mentalità aperta. La giusta mentalità è la cosa più importante…”.

Anch’io ho studiato nelle scuole italiane, negli anni ‘60”, osserva l’altro ufficiale, il generale. “Ora ho ricominciato a fare pratica perché i miei amici italiani di EUTM-S vengono spesso a trovarci”. 

Tu vuoi sapere delle relazioni tra Italia e Somalia, vero?... Noi, come sai, eravamo una colonia italiana. E noi, dopo la caduta della Stato, pensavamo che l’Italia sarebbe intervenuta, aiutandoci a non perdere il nostro governo. L’Italia è mancata…”.

Chiedo se i somali si sentono un po’ traditi...

Sì…”, risponde con un rispettoso imbarazzo. “…perché gli altri Stati che gravitavano in Africa non hanno perduto del tutto i rapporti con le loro ex colonie. Quelli della mia età la pensano così. I giovani di oggi forse meno, perché non sanno che gli italiani erano i nostri partners diretti, tutti i professori venivano qui per insegnare. Non so se gli italiani si rendono conto del loro errore”.

Il generale è una memoria storica delle forze armate somale, dove oggi i ragazzi che si arruolano sembrano avere una consapevolezza dell’importanza di difendere il loro Paese. “I militari italiani che ci danno una mano come Stefano (il colonnello Santoro, nda…), capiscono e sanno che i somali avevano il migliore esercito d’Africa per grandezza e forza, che è caduto insieme allo Stato. Avevamo interi battaglioni di sole donne. La donna somala del resto è il pilatro che tiene unito tutto, è una donna forte che vuole fare più di noi uomini. E noi siamo contenti di avere donne che la pensano così, ne siamo orgogliosi. La donna somala sa quello che vuole. La più 'anziana' nelle forze armate oggi riveste il ruolo di colonnello (Da giovedi 16 agosto una donna è a capo della polizia somala, nda). La Somalia, in questo, è più avanti di voi italiani…”.

Ora, per ricostruire, ci vorrà molto tempo. “Secondo me, dobbiamo costruire nuove caserme, quelle che c’erano le hanno prese i civili per abitarci. Senza caserme non possiamo riunire né ricostruire le forze armate: ora il soldato fa il suo turno, con il suo fucile e poi va a casa. Che militare è?! Abbiamo chiesto all’Italia e all’Unione europea nuove caserme mentre si continuano a formare truppe e istruttori. È importante. Ricostruire un nuovo esercito e come farlo non dipende dagli altri, è lo Stato somalo a doverci pensare. Senza militari non esiste la sovranità, non esiste l’indipendenza, non esiste lo Stato. Il governo vuole ricostituire l’esercito, ma abbiamo bisogno di aiuto, soprattutto dall’Italia”. 

Se posso intromettermi”, osserva il maggiore, “oggi gli italiani che abbiamo qui sono sotto 'l’ombrello' dell’Unione europea. Va bene l’Unione europea, però vorremmo anche la presenza italiana come era una volta, con noi, di più e da sola, con un tramite diretto oltre che con l’Europa. Mi dici che in Italia il problema è politico e delicato perché siamo stati una vostra colonia? Io non mi considero colonia, mi considero italiano. Eravamo italiani. Questa parola, 'colonia', non è credibile: noi eravamo italiani africani e ne eravamo orgogliosi! Perché non possiamo tornare a esserlo?”. A simile domanda, che viene posta da gran parte dei somali, può rispondere solo la politica italiana.

Ospedale militare Xooga

Xooga Military Hospital di Mogadiscio è forse l’unica attività di mentoring, per la parte della sanità militare, di tutti i teatri operativi dove siamo presenti. Ed è anche, da oltre 20 anni, l’unico esempio di struttura medica militare in Somalia. Operativo 24 ore al giorno, tutti i giorni, è aperto anche ai civili, per questi ultimi grazie ai fondi CIMIC, attività del ministero della Difesa italiano per cooperazioni civili/militari a supporto della popolazione locale. La missione EUTM-S, invece, ha fatto un lavoro di mentoing/advisoring con le forze armate somale per la creazione di un corpo sanitario e relative strutture che già erano loro.

In questo caso lo Xooga Hospital, che anche in passato era un punto di riferimento importante per l’intero quartiere. Con la guerra, la parte di sanità militare, in Somalia, è stata completamente azzerata. Ora, attraverso EUTM-S, si cerca di riattivarla e lo Xooga hospital ne è la parte focale. Buona parte dei medici sono militari, come il maggiore dell’Esercito somalo Mahad Abdulahi Nor, medico chirurgo e ufficiale in comando della sanità militare somala, oltre che supervisore allo Xooga insieme alla direttrice dell’ospedale, Khadija Einte, che è una civile. Ci sono anche studenti delle università somale che qui vengono a fare il praticantato. All’inizio, al posto della muratura c’erano tende e container. È dal 2014 che qui hanno cominciato a ripulire l’area (nei dintorni, le strutture sono crivellate di colpi) e iniziato i lavori di ristrutturazione come anche di fornitura di attrezzature e medicinali. Le tende, oggi, sono all’interno e separano le varie stanze, da quelle che accolgono i degenti, molti i feriti agli arti e anche le madri con i bambini.

Alcuni medici sono stati mandati all’’estero a seguire dei corsi di specializzazione. Quando torneranno, la nostra intenzione è aprire i vari dipartimenti come Ortopedia, Chirurgia, etc”, spiega il maggiore Mahad Abdulahi Nor.

A volte riceviamo cose che non servono. Quello di cui abbiamo bisogno, ora, sono le medicine come aspirina, antibiotici per curare i feriti, pomate. È ancora un ospedale generico, in questa fase è meglio avere medicine generiche. E dico grazie, grazie, grazie all’Italia. Senza gli italiani non avremmo avuto nulla”, il saluto della direttrice Khadija Einte.

(foto dell'autore)