Reportage Siria: Sulla via di Damasco

24/10/16

Alla dogana dell’aeroporto di Beirut la fila è lunga. Fino a qualche anno fa si entrava senza particolari storie e le guardie di frontiera erano serene. Ora il clima è cambiato.

Facciamo l’errore di seguire la coda col doganiere donna, per definizione più pignolo.

“Perché volete andare in Siria? Vi hanno chiamato loro?”

Ci guarda e aggiunge che deve parlare col suo superiore. Ci portano in un ufficio della dogana mentre i nostri zaini passano ripetute volte sul rullo di controllo. Dopo dieci minuti la tizia torna con i passaporti e ci avverte che dobbiamo entrare in Siria entro 24 ore.

L’uscita dell’aeroporto Hariri di Beirut è su un ripiano alzato. I furgoncini dei taxi collettivi gridano le destinazioni senza fermarsi. Altri taxisti indolenti aspettano. Quando diciamo Damasco non si scompongono e s'inizia a trattare sul prezzo. Da 120 dollari si arriva a qualcosa in meno. Gli euro in ogni caso non li vogliono (sarà l’effetto Brexit…) e comunque li cambiano alla pari.

Dopo 3 km di caos dell’ora di punta cambiamo auto e autista, a detta loro più adatto per la Siria. Anche lui è arabo ma fuma come un turco.

Ci sganciamo dal traffico di una città bella, maliziosa e piena di cicatrici per salire sui tornanti che puntano a est. Il sole man mano cala alle nostre spalle e riflette sulle acque del porto di Beirut sempre più in basso e lontane.

Da Beirut a Damasco la strada è una e sempre la stessa. Sale fino a Chtaura tra check point militari e Mercedes anni ‘80. Poi scende e il verde del Libano costiero fa spazio al giallo autunnale che porta alla Valle della Beqa e in Siria. Soldati nervosi regolano il traffico.

In due ore totali si arriva alla frontiera: sul lato libanese le pratiche sono veloci; sul quello siriano le cose si complicano. L’autista conosce i varchi giusti e dopo controlli minuziosi arriva il timbro d’ingresso e la raccomandazione di andare entro domani al Ministero dell’Informazione. 

Cala la sera, siamo in Siria. Ce lo ricorda il primo cartello che incontriamo per la strada.

Due profughi in fuga corrono sulla massicciata che fiancheggia la carreggiata. Sono le ombre scure di una donna e un ragazzo che tentano di passare la frontiera. Potrebbe essere una scena di duemila anni fa…

Intanto spuntano le stelle e con loro s’infittiscono i check point. Sono continui, ossessivi, minuziosi. Fino a Damasco ne contiamo più di 20 ed è inutile riporre il passaporto ogni volta. L’autista sorride e fuma, fuma e sorride. Asseconda in tutto le richieste dei militari che ci fanno scendere ogni volta, perquisiscono, aprono e chiudono ogni cosa.

Quando sa che siamo italiani uno di loro dice che una volta è stato a Roma e ai Mondiali tifava Italia. Un altro ci dice “welcome in Syria…” e ci offre delle mele prese da un camioncino in fila: in un solo gesto, una gentilezza gratuita e il potere assoluto dei militari.

Tra Libano e Siria il traffico è aumentato in modo sensibile dall’ultima volta in cui siamo stati qui a febbraio. È un buon segno per il Paese, ma triplica il tempo per arrivare dalla frontiera a Damasco: ci mettiamo tre ore invece che una.

È più buio che in Libano, è un fresco più secco, è Siria.

Da lontano spuntano le luci di Damasco. Prima un alone vago, poi diventano una luce sola. Senza nemmeno capirlo ci ritroviamo nel traffico della città, con uomini, donne e bambini che passeggiano. Si respira un generico senso di tranquillità anche se i militari sono ovunque. L’ISIS e la guerra viste da qui sembrano irreali, lontane.

Il nostro hotel è una vecchia gloria dei tempi belli. Una volta costava un occhio della testa, oggi fa prezzi stracciati. Qualche anno fa dalle sue porte girevoli passavano turisti a frotte, venuti per vedere i vicoli e le bellezze della città vecchia. Oggi l’attrazione siamo noi, tra i pochissimi occidentali che circolano. Il receptionist venezuelano sbriga le nostre pratiche e ordina agli inservienti di occuparsi di noi. Dice di parlare un arabo ridicolo. Ci fidiamo.

Di fronte c’è un ristorante con un generatore elettrico all’ingresso capace di coprire il rumore del traffico. Nessuno parla inglese, nemmeno i menù, datati ormai qualche anno.

Un cameriere ha un lampo di genio: ne strappa uno vecchio usato per tappare uno spiffero. È scritto anche in inglese ma non serve perché la metà delle cose non le cucinano più. Mangiare a Damasco ha un sapore meraviglioso lo stesso.

La mattina dopo, al Ministero dell’Informazione aspettiamo che il funzionario (vestito casual e con capelli lunghi) ci dia il nulla osta per iniziare il giro dentro e fuori la capitale. Ha una copia della nostra documentazione inviata all’ambasciata siriana a Vienna, l’unica aperta nell’Unione Europea. La paura di avere intoppi svanisce con l’arrivo della nostra fixer e interprete. Per molte cose servono permessi di 5-7 giorni. Lei ci aiuterà in tutto. Parla un ottimo inglese, è giornalista e acconciata all’occidentale.

Intanto in taxi giriamo Damasco. Tra quadri di Assad e bandiere siriane dipinte anche sui jersey spartitraffico (nei Paesi arabi è un classico…), raggiungiamo il suq. In un’area verde lungo il percorso, sono accampati centinaia di profughi provenienti da ogni angolo della Siria. Basta questo per ricordarci la guerra.

Nei vicoli del suq non ci sono stranieri. Anche questo ci ricorda che qualcosa è cambiato. Gli affari e l’atmosfera sono gli stessi, ma c’è un’ombra strana che aleggia tra i volti curiosi e taciturni.

Passiamo per la Grande moschea degli Omayyadi. Entriamo tra donne con lo smartphone e merletti. Incrociamo gli sguardi di molti soldati in preghiera.

Quando è quasi sera andiamo al ristorante. Una volta era un posto di lusso, ora si mangia con due lire. C’è gente, più gente che a febbraio, ma non ci sono i turisti stranieri. I giovani di Damasco hanno ripreso comunque ad uscire la sera, per le strade di un Paese monco. Hanno una voglia di vivere che commuove. Noi siamo fuori luogo. Noi siamo la loro unica normalità.

 

testo: Giampiero Venturi, Giorgio Bianchi, Andrea Cucco

foto: Giorgio Bianchi