Guerra nel Sahel - cap.2: Il grande fratello francese (FINE)

(di Giampiero Venturi)
12/05/16

Sventolano sui pali in riva al fiume i tricolori rosso-giallo-verdi della République du Mali. Il porto di Mopti è niente più che una sponda sul Niger dove attraccano le barche. Si accatastano senza ordine decine di pinasse, le imbarcazioni allungate con tenda centrale, cucina a carbone e motore fuoribordo. Color sabbia come l’acqua su cui galleggiano, sono l’anima del fiume.

Mopti è questo: tra topi e immondizia bruciata, è una città di fango e terra adagiata sull’acqua. A Mopti ci gioca il Sabana, che lotta per non retrocedere nella Serie A maliana. In un’ottica globale la cosa conta e non conta…

Mopti è la vera frontiera del Mali. Da qui verso nord, anche dopo la riconquista ufficiale che ha cacciato gli islamisti nel 2013, la musica cambia nonostante le litanie tribali rimangano le stesse. Il Paese di fatto diventa una caserma.

A Mopti in realtà l’aria tesa ci arriva appena. La 5a Legion della Gendarmerie e la Brigade Fluviale pattugliano il fiume e taglieggiano pescatori e commercianti locali col pretesto di prevenire l’infiltrazione di terroristi. Con le mimetiche celesti, mischiate alle uniformi blu della polizia, i gendarmi controllano i passaporti e si fingono attivi. Tutto sonnecchia.

In 36 ore di barca da Mopti si raggiunge Timbouctu, leggenda UNESCO di cammellieri e uomini del deserto. Per il vero si arriva a Koriomé, porto di Timbouctu, distante un’ora mezzo nell’entroterra, in pieno Sahara.

Timbouctu, è famosa già dal Marocco per i 52 giorni di cammello annunciati a Zagora. È famosa per la sua storia antica ma anche per la cronaca di ieri; quella che ricorda la furia jihadista durante l’occupazione del 2012. Condivide con Gao e tutto il Mali del nord i ricordi di una guerra appena finita ma che serpeggia sotto le ceneri col suo carico di odio strano.

Dopo l’intervento francese dei salafiti dell’AQMI, di Ansar Dine e di MUJAO, non c’è più traccia. Almeno ufficialmente l’area è stata consegnata alle forze ONU. Ma i drammi in Mali non fanno rumore. Proprio come l’incudine del sole, ci sono sempre anche se nessuno ci fa più caso. Pace e guerra in questo angolo bollente di mondo sono la stessa cosa: né l’una, né l’altra prevalgono mai del tutto.

Passato l’aeroporto, si varca l’arco che annuncia Ville de Tombouctou. Per entrare in città, come ad ogni cambio di regione, arrivano i controlli doganali. I Bérets rouge, élite dell’esercito maliano, lasciano presto il posto a quelli azzurro stinti del MUNISMA. Corrono veloci le “tecniche” dei militari del Burkina che sorridono orgogliosi delle loro uniformi nuove di zecca. Tra sabbia e fango, senza traccia d’asfalto, girano anche i 4x4 di rari safaristi, di Onlus e associazioni imprecisate.

Tra edifici pubblici, monumenti alla pacificazione e moschee è tutto un film. Ostile ma non troppo.

Nella piazza principale fra Governatorato e sede della polizia sono ancora visibili i segni dei bombardamenti del gennaio 2013. I buchi delle schegge scompaiono lentamente man mano che continua la ricostruzione. Artiglieria pesante, bombe d’aereo, armi automatiche: qui è passato di tutto, ma non sembra importare a nessuno. Del Mali è meglio non parlare. L’Islam è radicato ma in fondo non oppressivo e dimenticare fa comodo a tutti: al governo che sopravvive con l’aiuto di Parigi; ai Francesi che hanno mantenuto i loro interessi; ai miliziani locali che amministrano le loro bagatelle; a qualche jihadista che aspetta; all’ONU che seppellisce un problema sotto una sabbia dura e rovente.

E tra sabbia e polvere tutto si chiude. I volti neri coperti da veli e maglie colorate scorrono via oltre il Grande Mercato. In una partita di calcio 100 contro 100 giocata al tramonto su una spianata malmessa, tutto finisce.

Timbouctu è ombre lunghe. Un pezzo di niente dove è difficile arrivare ma da dove è ancora più difficile partire. Un pezzo di storia e deserto diventato simbolo di un Mali buono per telecamere e annunci ufficiali.

Dietro a un baobab, soldati del MUNISMA si divertono a scaricare un grande fuoristrada bianco. Defender sfondati arrancano qua e là tra traffici loschi e meno loschi. Un nugolo di bambini si muove a banchi, come polvere.

Il Mali è tutto qui, in poche scene ripetute ogni giorno: un grande fratello francese che controlla discreto, il sole e la povertà che durano da secoli.

Per capirlo non ci sarebbe nemmeno bisogno di arrivare a Gao, capitale dell’autoproclamata repubblica dell’Azawad de facto indipendente da Bamako fino al 2013. L’intreccio tra Azawad e islamisti era il nocciolo del papocchio maliano risolto con la guerre française… Proprio su Gao, la città più multietnica e aperta del Mali, si erano diretti gli sforzi principali delle operazioni di riconquista.

Rattoppata in fretta dopo la guerra, oggi è un enorme presidio militare. Col suo nuovo ponte di cemento sul Niger paludoso, appare come una zona di frontiera. Tra check point ed elicotteri che ronzano il paesaggio è lunare, presidiato dai blindati francesi e dai vecchi BTR russi dell’Armée du Mali e dalle Forze di Pace Africane.

I luoghi sono famosi per i rapimenti degli stranieri, ma pericolo mine a parte, la situazione oggi è tranquilla.

In questa quotidiana assurdità s’intuisce cosa sia la geopolitica priva del politicamente corretto. I legami storici con la Francia da queste parti prevaricano nei fatti ogni demagogia internazionale. In barba a interventi Onu maldestri o addirittura dannosi, Parigi si è sporcata le mani per i suoi interessi diretti: tra le dune strane e il sole che muore, tutto il resto non conta.

Che sia stato il governo socialista di Hollande a metterci la faccia, è la dimostrazione di come i Paesi che non delegano il loro calibro di potenza vivano gli interessi nazionali in modo ideologicamente trasversale. Rien ne va plus.

Oltre il centro abitato non ci sono strade, ma solo il Sahara, i cammelli e il color ocra per 2500 km. Da qualche parte, le forze speciali francesi; da qualche altra forse la Jihad.

Oltre c’è il Nord. Il nord del mondo.

(clicca qui per la prima parte: A Mali estremi...)