Guerra nel Sahel - cap.1: A Mali estremi...

(di Giampiero Venturi)
07/05/16

Già all’aeroporto di Bamako Senou ci si fa un’idea. Manca poco che il vaccino per la febbre gialla venga fatto con una siringa buona per tutti. Per aggirarlo basterebbe l’equivalente di 10 euro in sefà, i franchi dell’Africa occidentale.  

Bonjour Afrique. Partiamo Mali, viene da dire. Malissimo.

Un pick up maculato pieno di soldati della Garde Nationale passa con facce più curiose che cattive. Il resto è confusione color ocra. Bamako è più rotta e sporca di altre capitali africane. Girarci dentro è come scivolare in un vaso di terracotta: per quanto si guardi intorno, la visuale è sempre la stessa.

Alla gare routière, partono i bus per il Nord che per i Maliani sarebbe l’Est. Non è questione di strabismo, basta guardare una mappa. Il Nord è l’Azawad, la zona desertica a prevalenza Tuareg. “È gente di fuori, altra mentalità…” si direbbe al bar dello sport di Bamako…

Le cose in realtà sono più complesse. L’Azawad è un cassone di sabbia (e un po’ di petrolio) grande tre volte l’Italia. Gli Arabi e i Tuareg del Sahara mal sopportano i neri di Bamako fin dall’indipendenza dalla Francia del ’60. La matrice del malumore è sempre stata laica. Da quando nell’Africa occidentale ha fatto capolino l’islam radicale però, il fuoco si è riacceso con fiamma nuova ed è divampato nel 2012, con armi di provenienza libica. Con la caduta di Gheddafi, in Africa sahariana le armi hanno preso a girare più dei cammelli…

La Francia è intervenuta con l’Armé de terre e l’Armée de l’air. La Marine Nationale è rimasta a casa perché il Mali non ha il mare. Ha solo il grande Niger, che fa da fiume, da mare, da cloaca e da autostrada. 

Parigi è intervenuta ufficialmente nel gennaio 2013 con l’Opération Serval che come tutte le operazioni ufficiali, ha avuto un inizio e una fine. Oggi c’è l’Opération Barkhane che ne è la continuazione su base diversa.  Al posto dei Mirage, dei Rafale e dei blindati della cavalleria etrangére, ci sono i parà della Légion che lavorano per lo più ai confini coi Paesi limitrofi, Algeria in testa, per filtrare arrivi sgraditi. Operazioni chirurgiche preventive e non solo. I Francesi continuano a tutelare i loro interessi secolari in Africa  ça va sans dire, ma è tutto molto discreto.

Così discreto che fino a Mopti, sulle rive del Niger, della guerra recente non si accorge nessuno. I segni ci sono ma si mischiano ad altri problemi. Giusto la carcassa di un vecchio BTR ricorda che toccare le lamiere arrostite dal sole non è un gesto da furbi.

Da Bamako, la strada tiene per due ore, poi da brutta diventa bruttissima. Tre impressioni diventano certezze:

  • il Mali non somiglia affatto al Trentino
  • non c’è limite alla povertà umana
  • la guerra passa ovunque e si mimetizza benissimo.

È la strada del Sahel, l’anticamera del Sahara. Sabbia, arbusti, sabbia, cespugli, sabbia, buche, sabbia, acacie, sabbia, baobab, sabbia. Che in Mali ci sia sabbia diventa più di un sospetto. In realtà è terra polverosa che riempie tutto dello stesso colore. 

Ci vogliono 12 ore da Bamako a Mopti. 12 ore africane. Potrebbero essere 11 o 20, non è dato saperlo.

Dopo Ségou il bus lascia il corso del Niger perché l’area intorno a Markala è infestata da bande armate. Markala è stata il perno della riconquista francese nel gennaio 2013; la città chiave per fermare la jihad in marcia verso la capitale dopo la rotta dell’esercito maliano nel Nord.

Dopo i Francesi sono arrivati i caschi blu della MINUSMA, la missione demagogica ONU che tra militari e polizia conta 10.000 uomini. Molto personale viene dai vicini africani e vista la popolarità, controlla la situazione non meglio di un ubriaco bendato al volante.

Chi comanda da Mopti in su, sono bande senza padrone e soprattutto la milizia Gatia, alleata del governo. Sono i patriottici del Gruppo Autodifesa Tuareg che si oppongono agli estremisti islamici e si dichiarano fedeli a Bamako. Come gli Arabi del Movimento Arabo dell’Azawad, dicono di volere più autonomia per il Nord ma al tempo stesso l’integrità del Mali.

Tuareg e Arabi alleati del potere centrale? Sembra assurdo ma in realtà è un calcolo. I soldati del Gatia usano metodi spiccioli. Regolano i conti con l’estremismo islamico senza odorare di colonialismo. Le stesse cancellerie occidentali fanno finta d’indignarsi. I Tuareg anti jihad giocano in casa e sono amati dalla gente del posto: fanno comodo anche per questo.

Coi loro tagelmust (turbante tuareg), le mimetiche chiare e le armi francesi, fanno quello che l’esercito regolare non ha saputo fare e quello che i Francesi non possono fare. A Mali estremi, estremi rimedi, verrebbe da dire…

In futuro chiederanno il conto e l’Azawad avrà un peso diverso nella repubblica del Mali. Parlare di futuro nel Sahel però, lascia il tempo che trova.

Il percorso continua a est per Touna, Bla, Yangasso e San, tra villaggi di fango senza nome, mosche, moschee e missioni cattoliche.

Il francese si fa più raro e si parla bambara. La zona è conosciuta per le calebasse, le zucche da cui si ricavano tamburi e recipienti.

Per mangiare si segue l’autista che come in tutto il mondo la sa lunga. In una capanna con panche e pentoloni ci sono riso e pesce di fiume. Si pranza con 2000 CFA, circa 3 €. Per chi non avesse i vaccini, tifo, colera ed epatite sono compresi nel prezzo. Anche la diarrea è in offerta.

A Mopti, fatta di mattoni di fango, ci si ferma. Per arrivare a Timbuctu e Gao ci vuole il fiume Niger. Da qui in su, gli islamisti avevano occupato tutto. Ora non più. Andiamo a vedere.

Il Mali è un oceano caldo di polvere. Ficcarci il naso è un rischio continuo dal fascino unico.

(continua)