Donbass: Viaggio nella terra dei diamanti neri

(di Giorgio Bianchi)
27/08/18

Se si cerca la parola “antracite” su internet la prima voce che si incontra è quella di Wikipedia che si riferisce alla tonalità di colore.

Per avere informazioni circa il tipo di carbone bisogna leggere poco più in basso, nella pagina dell’Enciclopedia Treccani:

Antracite: carbone fossile paleozoico, costituito dal 93-95% di carbonio; nero, compatto, lucente, brucia con fiamma cortissima per assenza quasi totale di materie volatili (carbone magro) ed è dotato di elevato potere calorifico.

Nel mondo occidentale, quello che ha sostituito le attività produttive con la finanza, la funzione con la forma, la politica con il marketing, forse è giusto che sia così.

Nel Donbass al nominare la parola antracite nessuno si figurerebbe un elegante abito da uomo, un divano Minotti o una berlina; da quelle parti con quella parola si identifica inequivocabilmente quello che ancora oggi viene definito “diamante nero” e data la composizione chimica e la lucentezza è facile capire anche il perché.

Quando parti per un reportage nelle miniere sai in anticipo che quel nero te lo porterai dietro per un pezzo: si insinuerà nei circuiti della tua fotocamera, nelle fibre dei vestititi, nei piccoli alveoli dei polmoni, sotto le palpebre. Per questo motivo i minatori in città li identifichi subito, perché sembra si siano dati il kajal attorno agli occhi. Ma un tempo non era solo questo a distinguerli; una volta c’era lo status.

Come mi disse una volta Yuriy in macchina, quando andavi al mare, un minatore lo riconoscevi subito perché era colui che poteva garantire alla famiglia una vacanza decente.

Quest’anno Yuriy la famiglia al mare ce l’ha portata, come sempre, ma solo per tre giorni e facendo grandi sacrifici.

Da queste parti la crisi economica brucia più che altrove; da una parte c’è la guerra civile che ha congelato l’economia dell’intera area e dall’altra c’è il crollo del prezzo del carbone che in poco tempo è passato da 100$ a 30$ per tonnellata.

La vita nella cittadina mineraria è un misto tra il midwest di “Buon compleanno Mr. Grape” e il “Piccolo mondo antico” di Fogazzaro. Pasolini avrebbe sicuramente saputo descrivere meglio di me le decine di quadretti che si compongono di fronte agli occhi del visitatore straniero: i bambini che a piedi nudi corrono a fare il bagno nel laghetto proprio difronte alla stele sovietica che indica il nome della città; le signore che conversano lungo i viali della città fermandosi di tanto in tanto a raccogliere un frutto dagli alberi; le serate trascorse a chiacchierare in cortile stando seduti sui copertoni delle auto attorno al samovar fumante, mentre tutto intorno è un frinire ininterrotto di grilli e sopra la testa la volta celeste brilla come il carbone del sottosuolo; e poi ancora le partite a pallone per strada, tre vigorosi ragazzi che riparano a torso nudo la loro Lada nel garage di casa, una bambina che cammina lungo un viottolo indossando le scarpe col tacco della mamma di dieci misure più grandi, le riunioni davanti all’emporio per una birra e il treno che passa lento di notte illuminato dai lampioni della strada.

Sembra un set cinematografico a cielo aperto ma è tutto reale.

Come reale è la discesa nel cuore della terra a bordo di una vasca da bagno. Reale è il calore generato per attrito che si diffonde lungo la schiena durante la discesa. Reale è il senso di claustrofobia in quei cunicoli stretti. Reale è il rumore del martello pneumatico che fa vibrare le rocce e le traversine di legno che sostengono la volta scavata. Reale è la polvere che in poco tempo satura l’aria e brilla illuminata dai coni di luce dei fanali sui caschi dei minatori.

Foto, video e testi possono provare a raccontare tutto ciò ma quello che mancherà sempre sono le impressioni registrate dai sensi. Quelle solo Sasha, il minatore non vedente, è in grado di descriverle minuziosamente.

La sua mappa mentale della miniera è un fluire ininterrotto di sensazioni ordinate passo dopo passo fino al cuore della miniera.

Sasha prima della guerra lavorava in una azienda agricola assieme alla moglie. A seguito dei continui bombardamenti operati dalle formazioni paramilitari di Pravy Sektor la fattoria ha chiuso i battenti e la sua famiglia si è ritrovata all’improvviso senza reddito.

Ma lui non si è arreso, non si è attaccato alla bottiglia come fece Stachanov, che finì i suoi giorni sconfitto e dimenticato proprio da quelle parti.

Molte aziende agricole della zona continuano a lavorare nonostante la popolazione locale si sia ridotta del 70% e nonostante l’impossibilità di vendere i prodotti in Russia o in Ucraina.

Sergej sopravvive grazie alle sue serre riscaldate per mezzo di stufe alimentate ad antracite. Per affrontare l’inverno ha appena finito di scaricare 17 tonnellate di carbone.

Il prezzo al momento è conveniente ma questo non basta a far tirare al coltivatore un sospiro di sollievo in quanto le vendite si fanno sempre più scarse e sono sempre di più quelli che si ingegnano allestendo “orti di guerra” nelle loro proprietà.

Ma la bella stagione volge al termine e un nuovo inverno è alle porte.

Tutti i residenti hanno già fatto scorta di antracite per l’inverno e presto, tra l’esterno e l’interno delle case, ci saranno ancora una volta 50° di differenza, perché il potere calorico di questo combustibile fossile resta costante nel tempo nonostante le oscillazioni del mercato.

(foto: Giorgio Bianchi)