Turchia: teoria e pratica di un colpo di Stato

(di Gino Lanzara)
25/09/18

Se nel ’68 Luttwak avesse avuto la possibilità di analizzare la Turchia, sarebbe riuscito a rendere ancora più interessante il suo Manuale “Strategia del colpo di stato”; infatti, partendo da un’analisi sull’efficienza delle FA anatoliche post luglio 2016, ci si ritrova impigliati in una tela di ragno particolarmente complessa.

Se dovessimo narrare una storia, dovremmo cominciare con un “c’era una volta il 2011” quando i contrasti tra Erdoğan ed i vertici militari (già in fieri) furono interpretati come la genesi di una seconda Repubblica, benedetta da una (presunta) democratizzazione e santificata dalla liberazione dalla tutela kemalista, che già presagiva l’evoluzione autoritaria neo ottomana ed islamista. Il non comprendere il contesto ha portato ad analisi miopi ed affrettate, come quelle dell’EU, prive di profondità e di visione strategica per cui ogni evoluzione, purchè scevra dalla presenza militare, poteva essere considerata soddisfacente. Piaccia o no, l’istituzione militare ha garantito stabilità interna ed esterna; le operazioni condotte contro il Califfato a partire dal 2014, hanno confermato quanto capaci fossero le forze turche, abituate fin dagli anni 80 a calcare sia i teatri operativi anti PKK curdo, sia a fronteggiare l’ostilità siriana grazie all’Aeronautica ed ai reparti dell’Esercito, e malgrado le progressive infiltrazioni di personale politicamente affidabile. Fino ad arrivare al 2016, il centro della tela del ragno, con un tentato coup d’etat quanto mai controverso tanto da essere definito dallo stesso Erdoğan “un dono di Dio”.

Il cammino dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, ndr) dal 2002 ha seguito due strade, parallele ma diversamente illuminate; da un lato l’onda lunga dei provvedimenti a carattere economico, supportati da misure finanziarie espansive, dall’altro la lenta ma costante presa di possesso del potere con l’estromissione dei militari, a partire dalle purghe già iniziate con l’allora alleato Gulen, fino ad arrivare al referendum costituzionale del 2017 ed alle elezioni del 2018, che hanno di fatto ratificato il cambiamento istituzionale.

La cooptazione del generale Hulusi Hakar quale Ministro della Difesa non ha compensato il ridimensionamento del ruolo politico delle FA che tendono, al vertice, a compiacere un establishment che ancora teme sia fronde sia il rifiuto di eseguire ordini ritenuti illegittimi, come nel caso di alcuni ufficiali dell’Esercito nei confronti dei curdi di Siria.

Lo zoccolo duro del kemalismo nazionalista e laico che contrasta l’islamismo dell’AKP veste ancora l’uniforme, ma non nei gradi apicali, premiati per essersi distinti nella lotta ai separatisti curdi del PKK e nelle operazioni ai confini con la Siria contro i curdi siriani dell’YPG.

Il Consiglio Supremo Militare, ora a maggioranza civile, non ha più facoltà decisionale stringente nelle nomine di vertice; Erdoğan, presidente con poteri esecutivi, decide direttamente sugli incarichi degli alti gradi fino ai colonnelli, con un controllo diretto sullo Stato Maggiore e con la smilitarizzazione della Gendarmeria, ormai soggetta, come la Guardia Costiera, all’autorità del Ministero dell’Interno.

Nusret Güner (foto), ammiraglio dimissionario per protesta contro precedenti provvedimenti del 2013, ha twittato un post in cui denuncia il totale intreccio dei militari con la politica, aggiungendo come la Turchia debba considerarsi “finita”.

Ma la Turchia, impegnata su più fronti, può fare a meno di oltre 3.000 ufficiali? Da non dimenticare sia le dimensioni delle Forze Turche, seconde solo agli USA con non meno di 500.000 uomini e donne in servizio attivo, sia la rilevanza delle Forze Speciali, coinvolte nel tentato golpe, a cominciare dai quadri della 1^ brigata delle Special Operations Forces, del 3° corpo d’armata, della 2^ Armata, più i servizi di sicurezza, ora direttamente dipendenti dal Capo sello Stato. Ma qui arriviamo al tessitore della ragnatela: come riorganizzare le FA?

Il reis riporta in auge un ex generale delle forze speciali, Adnan Tanriverdi, congedato perché a suo tempo considerato troppo islamista e che, a dispetto dei suoi oltre 70 anni è il più grande businessman turco nel campo della sicurezza. Titolare della Sadat, una compagnia di contractors vicini all’AKP, Tanriverdi ha creato un’organizzazione capace di offrire consulenze nel campo della guerra non convenzionale ed utile al mondo islamico, perché questo possa “prendere il proprio posto tra le superpotenze”.

Esistono articoli in lingua turca del giugno 2016, quindi anteriori al fallito golpe, che descrivono la Sadat come “l’Esercito invisibile di Erdoğan”, una forza pronta a fare quel che ufficialmente non si può. Al di là delle iperboli giornalistiche, è certo che Erdoğan ha consolidato il suo potere attraverso una struttura paramilitare strutturata su più livelli, con organizzazioni politiche giovanili, bande organizzate (p.es. “Germania Ottomana”), compagnie private di sicurezza: nulla di più conseguenziale nell’aver affidato all’ex generale, esperto nella mediazione nel procurement di equipaggiamenti ed in guerra asimmetrica, la riorganizzazione delle FA, con l’apertura di campi di addestramento grazie anche al sostegno offerto da Paesi del Golfo. Inutili le interrogazioni parlamentari presentate già dal 2012, che pure cominciavano a porre in evidenza il network realizzato dalla Sadat nella regione mediorientale pro gruppi combattenti in Siria ed in Palestina, grazie anche a decreti governativi che hanno di fatto rafforzato i gruppi paramilitari e hanno consentito ad ex appartenenti alle FA di poter influenzare il reclutamento di personale militare fino al 2020. Ad oggi, in Turchia, operano circa 990.000 operatori addestrati, tra cui 620.000 regolarmente armati: un Esercito parallelo, stando ai numeri.

Mentre l’Esecutivo glissa sull’impatto delle epurazioni, Al Monitor indica una forte carenza di quadri di comando e di Stato Maggiore, nonché di personale specializzato tra cui piloti da combattimento dell’Aeronautica, piloti d’elicottero dell’Esercito ed incursori delle Forze Speciali. Nonostante la Formazione abbia continuato a diplomare personale, le professionalità più specialistiche continuano a mancare.

L’AM è l’Arma che ha sofferto di più della situazione: l’allontanamento di più di 280 piloti addestrati ha ridotto drasticamente l’operatività dello strumento aereo che, al pari della componente avio dell’Esercito, che ha perso più di 50 piloti, non può assicurare un corretto numero di equipaggi, indispensabili alla difesa dei confini meridionali, porosi e soggetti alle attività jihadiste.

Ipotesi di ritorno alla normale operatività? 3 anni. Forse. Per ovviare alle vacanze si è cercato di sopperire con risorse civili, aspetto questo che, tuttavia, non garantisce disciplina e professionalità proprie della FA, e malgrado l’inaugurazione dell’Università della Difesa Nazionale.

La Marina è stata l’Arma meno coinvolta, dato che la maggior parte degli epurati sono stati individuati solo al più alto livello centrale e non in periferia, a bordo delle unità navali. Quel che manca, e mancherà a lungo, è la competenza nel know how proprio delle professionalità più specialistiche, una carenza che si è manifestata anche sul campo, combattendo contro Daesh in grado, almeno inizialmente, di rallentare l’azione dei corazzati. Per ovviare alla situazione, i Turchi hanno operato in sinergia con i proxy locali grazie ad unità meccanizzate di piccole dimensioni, e ricorrendo a quel che rimaneva dell’AM, agli elicotteri T129 (sviluppo basato sulla piattaforma italiana Mangusta), ed all’artiglieria semovente, salvo poi lasciare che gli attacchi fossero condotti dai proxy siriani. In ogni caso, per le sue caratteristiche geopolitiche, la Turchia continua ad essere un giocatore importante per la NATO.

In occasione dell’Operazione Scudo dell’Eufrate, le minacce ibride che hanno interessato i corazzati, che mancavano di sistemi di protezione attiva e di adeguata modernizzazione, hanno causato perdite per i missili guidati anticarro (ATGM); i sistemi di difesa aerea portatili (MANPADS) hanno disturbato le comunicazioni dell’aviazione di terra, mentre ordigni esplosivi improvvisati hanno falciato molti combattenti; tuttavia, l’Operazione Ramo d’Ulivo ha mostrato un sensibile miglioramento nelle attività belliche, con un incremento nell’uso di sistemi d’arma senza equipaggio, e con una Marina proiettata in versione Blue.

Turchia dunque vulnerabile? Indebolita, con un apparato in gran parte ancora privo della necessaria esperienza ma con notevoli capacità di reazione; il problema, quindi, si sposta su due altri fronti, politico ed economico.

Il fronte kemalista può essere definito come completamente sconfitto? E soprattutto: a fronte della politica di potenza esercitata, come influirà la crisi economica che sta imperversando nel Paese? Ambedue gli aspetti interessano un’unica faglia, una spaccatura che vede due realtà che si contrappongono: secolarismo laico e politica conservatrice ed islamista dell’AKP, versione turca della Fratellanza Musulmana e megafono delle zone rurali del Paese. Una scommessa, se vogliamo, dove, malgrado le dichiarazioni ufficiali, conta solo il denaro, e non altro.

(foto: Türk Silahlı Kuvvetleri / web / Sadat)