A Singapore comanda la Cina?

(di Gino Lanzara)
21/06/18

Il vertice svoltosi a Singapore, al netto dell’iconografia ufficiale, presenta diversi risvolti di carattere geopolitico che, con ogni probabilità, influenzeranno l’evoluzione dei rapporti regionali asiatici. L’incontro di aprile tra i due leaders di Nord e Sud Corea aveva già anticipato le tematiche portanti, ovvero cooperazione interstatale, stabilità d’area, alleggerimento delle sanzioni e, soprattutto, denuclearizzazione, tutti topics di particolare complessità che, in quel particolare frangente, non hanno potuto che condurre a dichiarazioni congiunte con assunzioni di impegni di principio.

Al di là del battage pubblicitario, il successivo incontro tra statunitensi e nord coreani non è stato né conclusivo né determinante; pur confermando un apparente intento distensivo nei rapporti tra i due Paesi, non si può affermare che i due leaders abbiano effettivamente prevalso l’uno sull’altro. Se è vero che Kim Jong Un, alla luce delle dichiarazioni del presidente Trump, sembra essere stato il più abile nei rilanci, è però altrettanto vero che è stata la Cina la vera potenza capace di tessere la trama politica dell’incontro con lo scopo di indirizzarne gli esiti.

Xi Jinping, il terzo convitato solo fisicamente assente, ha puntato per primo alla stabilità della penisola coreana vista come un’appendice della Cina continentale, una stabilità capace sia di evitare il rovinoso collasso di Pyongyang, ancora indispensabile cuscinetto tra il Dragone e gli Statunitensi al di là del 38^ parallelo, sia di garantire un valido argine alle velleità nucleari di Kim.

Prodromici al vertice di Singapore ci sono stati ben due incontri tra Kim e Xi, prima a Pechino poi a Dalian: difficile non immaginare di quale portata sia stata la moral suasion esercitata dal Principe Rosso, abile nell’esercitare un’effettiva influenza sulle decisioni del Grande Sole del XXI secolo. Anche la conclusione del vertice si è svolta secondo copione mandarino, con una doppia sospensione sia dei wargames americani e coreani del sud, sia della conduzione dei test nucleari a nord.

Ma quanto ha pesato la potenza emergente del Dragone sulla narrativa americana? Molto, sicuramente più della capacità nucleare nord coreana, tanto da indurre ad azioni economico – commerciali compensative, atte a rammentare a Xi chi ancora detiene l’effettivo Sea Power.

Una presa di contatto dunque, che lascia tuttavia insolute le grandi questioni geopolitiche, prime fra tutte un reale trattato di pace che sanzioni la fine della Guerra di Corea, e l’instaurazione di effettive relazioni diplomatiche non solo tra USA e Corea del Nord ma con gran parte del consesso internazionale, ovvero un processo di normalizzazione continuamente interrotto a causa delle ripetute sperimentazioni nucleari. La classica dichiarazione congiunta redatta al termine dei lavori, di fatto, anche se proiettata a gettare le basi di una trattativa utile a garantire il contesto Nord Orientale Asiatico da rischi nucleari, rende particolarmente complessa l’azione tecnico diplomatica demandata agli sherpa che dovranno ora trovare il modo di rendere attuabili le dichiarazioni politiche, specie alla luce delle inevitabili e reciproche concessioni necessarie a rendere concretizzabile un programma di lungo periodo.

Le maggiori asperità riguardano la querelle della denuclearizzazione e soprattutto l’assicurazione della tenuta del regime nord coreano, mai così bisognoso di garanzie contro un possibile sconvolgimento politico interno.

Gli insuccessi conseguiti dalle precedenti amministrazioni americane, responsabili di un colpevole appeasement bipartisan, stanti anche le prese di posizione nord coreane, non inducono a favorevoli auspici dato che, tra l’altro, non è ancora chiara la portata dell’interpretazione che i due presidenti vorranno dare all’eventuale processo di smantellamento della capacità nucleare del Regno Eremita.

Ritorniamo dunque un momento sulle “reciproche concessioni”; non si può escludere a priori che l’accettazione di un ridimensionamento nucleare nord coreano non conduca ad un ritiro strategico americano dall’area e quindi alla fine della deterrenza protettrice di Giappone e Corea del Sud.

In che termini Washington potrebbe “ripensare” la propria presenza? Non ritenendo possibile un ritiro tout court, va considerato che anche un eventuale ridimensionamento delle forze statunitensi condurrebbe alla necessità di ridisegnare gli equilibri regionali. I rapporti tra Cina e Corea del Nord, laddove privati di qualsiasi sovrastruttura ideologica, portano a ritenere che più che di alleanza si debba dunque parlare di una riluttante coesistenza, di una mutua ma spesso mal tollerata convenienza. Da un punto di vista geopolitico, è fuori di dubbio che l’aggressività nord coreana abbia creato più di un problema alla diplomazia cinese, dato che è stata capace di riaccendere nella regione una pericolosa e generalizzata corsa agli armamenti, sostenuta e sponsorizzata dagli USA, ovvero il concorrente commerciale capace di elevare dazi più che rovinosi ed in grado di suscitare pressioni ed influenza a ridosso dei confini cinesi, mercè i rapporti commerciali tenuti con i Paesi limitrofi che, pur condizionati dall’economia cinese, mal ne sopportano l’egemonia.

In sintesi, si è manifestata un’inversione di tendenza politica da parte cinese, una condotta discreta ma incisiva che, da un lato, ha fatto intendere alla Corea del Nord cosa significhi trovarsi repentinamente privati del proprio nume tutelare, e dall’altro l’ha condotta a negoziazioni che, nel gioco delle concessioni e compensazioni, consentono indirettamente al Dragone di trarre vantaggio dall’alleggerimento del regime sanzionatorio; l’eventuale apertura nord coreana alle relazioni esterne permetterebbe a Pechino di godere dell’opportunità politico-economica di tentare di variare vantaggiosamente gli equilibri regionali potendo contare sul riconosciuto leader di uno Stato sovrano e non più al bando, uno Stato da poter orientare secondo i dettami del socialismo di Xi.

Laddove la Corea del Nord era in passato riuscita a far coagulare una unanime convergenza politica negativa anche tra Nazioni storicamente avverse (Cina e Giappone), ora invece un Paese socialista proiettato verso la modernità ed il futuro secondo i dettami cinesi potrebbe contribuire alla revisione degli equilibri generali dell’area.

Cosa guadagnerebbe dunque la Cina? Un’ipotetica rideterminazione della presenza militare americana, conseguente al summit di Singapore, permetterebbe all’Impero di Mezzo di rivendicare con minor difficoltà i propri spazi strategici nel Mar Cinese Meridionale.

Finora la U.S. Navy ha dissuaso la Cina dal proporsi in modo troppo assertivo, ma una variazione dei rapporti di forza potrebbe indurre ad un consolidamento della strategia del filo di perle, con l’estromissione statunitense dalla regione. Minor deterrenza americana, maggior assertività cinese.

Ma si può essere certi di un’acquiescenza statunitense così marcata? Difficile, molto più fattibile un’ipotesi che vede Washington quale possibile partner commerciale nord coreano, tenuto conto anche del fatto (accettato dagli americani), che la denuclearizzazione potrebbe essere tutt’altro che scontata; dunque nulla di astruso nell’ipotizzare un’operazione diplomatica USA tesa a sostenere il Regno Eremita in chiave anti cinese; tale possibilità, peraltro già stigmatizzata da alcuni magazines, tuttavia si scontra con altre previsioni che, al contrario, tendono ad inserire la Corea del Nord quale fattibile “stazione” del percorso della Nuova Via della Seta.

Un’analisi conclusiva non può comunque prescindere dal valutare che, ad oggi, gli USA continuano a detenere sia il controllo di almeno l’80% delle vie marittime su cui transita il traffico commerciale e degli idrocarburi cinese, sia degli snodi e degli Stretti di Malacca, Sonda e Lombok, con un vantaggio diplomatico invidiabile: quello di poter contare sull’appoggio di buona parte dei Paesi d’area, non intenzionati a sostituire il proprio interesse economico con quello strategico. Gli americani, d’altro canto, ora si trovano a dover negoziare un’evoluzione del programma nucleare nord coreano senza poter contare su quella prevalenza, data erroneamente per scontata, del più prospero e “controllato” Sud.

In Corea, malgrado il summit, la partita non sembra essersi conclusa, anzi. Mai come ora sembra più che aperta anche all’entrata in scena di altri attori, come la Russia, ed in un’ottica di ripresa della corsa regionale agli armamenti.

(foto: White House)