Sahel: sabbia, religioni e soldi

(di Gino Lanzara)
07/03/18

L’attentato compiuto pochi giorni fa in Burkina Faso, malgrado le distanze geografiche che intercorrono con l’Italia, riveste una significativa rilevanza anche per il Bel Paese non solo per le decisioni assunte in merito al Niger al termine della trascorsa legislatura, ma anche per le ripercussioni oggettive che inevitabilmente avrà.

La geopolitica, come l’esperienza insegna, è animata da dinamiche in costante evoluzione che non tengono conto degli effetti anestetici indotti dalla politica interna. La galassia jihadista vive di una vita propria variegata e pulsante che, nella sua complessità, sembra sfuggire all’attenzione delle analisi dei policy makers.

L’area del Sahel è l’estensione geografica che meglio si presta, al momento, per favorire una rinnovata insorgenza integralista: malgrado il coinvolgimento di numerosi soggetti politici regionali (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Algeria, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad Sudan ed Eritrea), il tradizionale vuoto di potere e la costante anarchia hanno consentito una consistente infiltrazione di elementi jihadisti appoggiati da mafie e criminalità locali, favorita anche e soprattutto dalla caratteristica clanica delle tribù residenti. Nonostante il deserto, il Sahel è prima assurto a punto di transito privilegiato per il narcotraffico, poi per il business dei rapimenti, ed infine per il controllo e lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina; unitamente a questi aspetti, l’avvenuta caduta di Daesh in Siria ed Iraq, nonché la preesistente attività di gruppi insorgenti di matrice Qaedista, fornisce gli elementi utili ad un’analisi quanto mai complessa, specie se indirizzata ad una funzione predittiva.

Le pressioni politiche esercitate sui Paesi d’area e la costituzione del G5 formato da Niger, Mali, Mauritania, Burkina Faso e Ciad in funzione anti terrorismo, hanno provocato la riorganizzazione jihadista. Al di là della sovrastruttura religiosa quanto mai labile, già dal 2017 Al Mourabitoun, cellula guidata da Mokhtar Belmokthar, ex contrabbandiere e la cui uccisione ad opera francese è stata smentita, ed Ansar Eddine condotta da Iyad Ag Ghaly – ex combattente marxista in Libano – si sono fuse per formare Jama’at Nusrat al Islam wal Muslimeen (Supporto all’Islam ed ai Musulmani) che si è affiliato ad Al Qaeda e che, in forma assolutamente inedita, starebbe alleandosi con il costituendo Stato Islamico del Sahel. Chi pensava che Daesh fosse stato definitivamente sconfitto dovrà dunque ricredersi, e soprattutto dovrà tenere in debita considerazione le cointeressenze economiche e criminali che, pur non avendo nulla di religioso, data la collocazione dell’area, coinvolgeranno anche l’Italia. Fin troppo facile, perciò, prevedere un rafforzamento delle capacità belliche jihadiste tra Mali, Niger e Burkina Faso, peraltro già nuovamente e violentemente colpito.

L’orientamento politico regionale vede dunque una riorganizzazione terroristica ed una rinnovata attenzione per il Sahel da parte dell’Isis, aspetto questo che lede direttamente gli interessi italiani e che implica la valutazione dei rischi connessi ad un coinvolgimento in un’area dove Jihad e crimine si sovrappongono.

Ci sono delle responsabilità? Molte, e pesanti. Intanto una sottovalutazione del fenomeno Qaedista che, sotto altre denominazioni, si è diffuso nell’area tanto da arrivare ad un possibile ed inedito connubio con Isis, nonché una politica neocolonialista francese che ha dato nuova linfa alla preesistente instabilità con la creazione di un humus sociale favorevole al reclutamento jihadista. La Grandeur non ha abbandonato la politica di potenza francese che, a prescindere dal colore della linea governativa, ha reiterato un interventismo militare teso a rafforzare il concetto di Françafrique, a suo tempo teorizzato e concretizzato da Jacques Foccart, stretto collaboratore di Charles de Gaulle.

Conscia di aver – tecnicamente – perduto una guerra, la Francia non ha mai rinunciato al suo status di potenza geopolitica, e ha quindi puntato a mantenere il controllo delle sue ex colonie africane, vista anche la durissima lezione impartita dal Generale Giàp in Indocina. Il socialista Hollande ha infranto gli attendismi in politica estera e ha schierato le forze dell’Esagono con una strategia di difficile comprensione e nonostante avesse ripudiato in campagna elettorale il concetto neocolonialista; non gli è stato da meno il successore Macron, ancora più assertivo, se necessario, che anzi ha rilanciato la forte necessità, per l’industria nazionale, delle materie prime africane. La Francia intende essere protagonista, e la campagna in Mali è servita per ampliare lo scenario del conflitto; l’Operazione Sangaris è diventata Barkhane e ha raggiunto il Sahel espandendo la presenza francese anche in Niger.

Ed il Burkina Faso? Il democratico Hollande, con il pretesto di favorire il passaggio da un regime illiberale, transalpinamente sempre sostenuto, ad una democrazia, ha esfiltrato il corrotto presidente Compaorè grazie all’intervento dei mezzi dell’Armee de Terre; infine, la politica del parallelismo attuata a nord, in Libia, con l’appoggio fornito ad ambedue i contendenti, Serraj e Haftar, ed il sostegno garantito all’Egitto mercè l’assenza politica italiana, ha completato il quadro.

In termini di valutazione della garanzia di sicurezza nazionale, gli attentati sul suolo metropolitano francese ed ora anche a Ouagodougou, sembrano al contempo – come un ossimoro geopolitico - sia smentire la validità strategica di Françafrique che non ha ridimensionato la minaccia jihadista, sia confermarne la necessità dato che, come in Siria, laddove entrano in gioco Russia ed USA, la Francia è delegata ad un ruolo comprimario. Il Burkina Faso, nel frattempo, paga a caro prezzo il cambiamento di regime; l’apparente paradossalità risiede nel fatto che Compaorè, presidente cristiano al potere per oltre 20 anni in una regione islamica nonché leale alleato francese, avrebbe avuto tutti i “numeri” per attirare strali ed azioni terroristiche Qaediste, apparentemente contenute sia con l’appoggio ai ribelli tuareg avversi agli jihadisti sia con l’assenso allo schieramento in territorio burkinabè delle forze speciali transalpine. In realtà smontando le consuete sovrastrutture ideologiche rimane solo il titolo di una celebre commedia (neanche a farlo di proposito, francese), per cui gli affari sono affari, e dunque la fraudolenta protezione governativa offerta per i traffici illeciti di Al Qaeda nel Sahel ha costituito una garanzia di sicurezza interna, venuta meno con il crollo del regime di Compaorè.

Françafrique, di fatto, è stata ed è questo: un intervento pervasivo e costante, a carattere economico e politico di stampo neocolonialista nelle dinamiche politiche centroafricane. L’intervento Italiano in Niger si inserisce in questo contesto e, seppur gradito a diversi attori politici europei ed atlantici, non può non tenere conto di una realtà che tende a muoversi con una velocità maggiore di quella delle cancellerie occidentali.

Il contenimento dei flussi migratori ci impone una rilettura del nostro impegno oltremare, sia da un punto di vista operativo che logistico, specie se si deve tenere conto di un nemico abituato a muoversi e ad operare in un ambiente desertico di migliaia di chilometri di estensione e che, particolare da non sottovalutare, si sta pericolosamente organizzando. Intanto, c’è da registrare un aumento della spesa pubblica destinata al supporto di tutte le nostre attività che, almeno dal punto di vista geopolitico, stanno spostando l’asse verso un teatro sicuramente più congeniale per il nostro rango ed i nostri interessi, il Mediterraneo.

Ma per rimanere sull’aspetto più puramente economico, che è poi quello che muove gli appetiti di tutti gli attori coinvolti, quali saranno i nostri dividendi? Il supporto indiretto fornito all’Esagono francese, che così potrà reimpiegare le sue forze sul proprio territorio nazionale, quale ritorno avrà? Quale posizione politica potremo assumere se, come sembra possibile, la nostra partecipazione dovesse passare da training a combat? Ulteriore aspetto da non trascurare: quale peso eserciterà, ancora una volta, la volitività estera Vaticana mai così presente nella politica italiana e così votata alla causa migrazionista?

Se l’invio di reparti sembra soddisfare sia esigenze interne per il controllo migratorio, che estere nel supporto a potenze di cui temiamo il distacco ed una scarsa benevolenza, non possiamo tuttavia non considerare il vuoto diplomatico registrato in quest’ultimo periodo che, sommato all’incertezza derivante dalla consultazione elettorale, potrebbe causare ulteriori isteresi diplomatiche e concreti rischi per chi si trova sul campo.

Ciò che ora si può percepire è che il melting pot di jihadismo, criminalità e statualità dittatoriali unitamente ad una vendetta della culla che ci vede drammaticamente soccombenti in termini demografici, impone un cambio di direzione del sistema.

Tolkien diceva che “non è la forza del corpo che conta, ma la forza dello spirito”. Quanto spirito abbiamo ora?

(foto: Minusma / RFI)