Realismo e miracoli

(di Gino Lanzara)
11/11/19

Ben Gurion esaltò lo spirito ebraico, fatto di pungente autoironia, quando disse che “..in Israele, per poter essere realista devi credere nei miracoli”; un’affermazione quanto mai calzante per quanto riguarda sia il piano politico che quello geostrategico.

Le consultazioni elettorali del 2019 hanno consegnato una Knesset priva di una maggioranza qualificata, dunque non in grado di esprimere una compagine in grado di governare; l’ipotesi di un ulteriore ritorno alle urne ha indotto il presidente Rivlin a prendere una posizione netta, ribadendo la necessità di avere un governo stabile, espressione dei due maggiori partiti.

Il problema politico è legato a Netanyahu, una presenza comunque ineludibile e che, malgrado i possibili problemi giudiziari, ha ricevuto per l’ennesima volta l’incarico di formare un nuovo esecutivo di coalizione che compendi Likud, Partito Blu e Bianco dell’ex generale Gantz, con l’interposizione dell’ex Ministro degli Esteri Lieberman, una volta fidato collaboratore di Bibi, ed ora imponderabile ago della bilancia. Che la questione sia rilevante lo testimonia il fatto che, a fronte di un’ordinaria durata quadriennale della legislatura, dal 2013 Israele sia stato costretto a chiamare i cittadini alle urne per ben 4 volte.

Lo stallo politico israeliano è figlio di un sistema proporzionale che, generando una frammentazione del quadro generale, preclude alle formazioni più rappresentative sia la possibilità di conquistare la maggioranza, sia di varare in alternativa un governo di unità nazionale trasversale agli schieramenti, presieduto alternativamente dai 2 leader delle maggiori compagini, ed indirizzato a moderare un sentimento anti islamico manifestatosi fortemente in questi ultimi anni, e che ha impedito l’integrazione della comunità araba nel contesto israeliano.

Una coalizione di più ampio respiro, in sintesi, sottrarrebbe ai partiti minori quella capacità negoziale di cui ora non si può non tenere conto a meno che non si intenda condurre al fallimento l’esecutivo del momento, in un contesto abitualmente connotato da posizioni antitetiche che impediscono di prendere decisioni di ampio respiro: dunque, un sistema politico ad alta rappresentatività istituzionale ma di instabilità patologica; insomma, mai come in questo momento Israele avrebbe fideisticamente bisogno di un miracolo che coniugasse, in un ossimoro politico, la profanità della realtà e la trascendenza di un’impalpabile fede superiore.

Deterrenza e cigni neri

Ad Israele è vietato accantonare le dinamiche internazionali in cui è coinvolto, dinamiche sempre collegate con il suo vivace menage politico interno.

Il contesto securitario nazionale presenta una significativa forza militare, tecnologica, economica, che tuttavia non preserva il Paese da possibili impegni militari su più fronti, con tutte le difficoltà legate alla ottimizzazione delle possibilità strategiche; per Israele, esiste sempre un’asimmetria sia negli scopi e nelle aspettative della guerra (per un suo nemico è sufficiente non perdere per poter dire di aver comunque vinto), sia nelle regole di ingaggio.

Esiste di fatto una deterrenza di base sì da rinnovare ma comunque da sottoporre all’analisi costi/benefici nei confronti di avversari che, cercando di ritagliarsi spazi funzionali, hanno sviluppato valide risposte operative, una deterrenza che sconsigli agli antagonisti di Israele di condurre azioni belliche su vasta scala, mantenendosi al di sotto della soglia della guerra. Si contribuirebbe così ad una volatilità che potrebbe incentivare un incrinarsi progressivo della situazione complessiva, tuttavia mitigato dal disinteresse israeliano per un conflitto di più ampia portata.

In gran parte delle aree considerate come fondamentali per la sicurezza nazionale, fatta eccezione per la presenza iraniana in Siria ed il trasferimento di equipaggiamenti a Hezbollah in Libano, Israele ha optato per il mantenimento dello status quo evitando approcci proattivi, aspetto che porta ad affrontare una situazione razionalmente non ottimale, e comunque a detrimento delle prospettive future; questa linea, se da un lato blocca la possibilità di attuare una soluzione a due Stati nel conflitto palestinese, dall’altro consente di attribuire ad Israele un ruolo strategico in un ipotetico conflitto con l’Iran, grazie alla libertà d’azione fin qui concessa, ed ora messa in discussione dall’esito della guerra siriana e dall’indebolimento dei sauditi, comunque non sfavorevoli a sostenere pragmaticamente Israele anche se politicamente gravati dall’omicidio Kashoggi. Il problema potrebbe quindi sostanziarsi nella valutazione dell’entità della minaccia, sia privilegiando strategicamente gli assunti della Dottrina Begin, che esclude per gli altri Paesi concorrenti la possibilità di possedere armamenti nucleari, sia propendendo per attacchi preventivi.

Tsahal, in grado di gestire su più fronti attacchi a bassa intensità, privilegiando gli scontri di intensità più elevata se condotti in sequenza, ha puntato all’area settentrionale, sia completando la barriera sotterranea e di superficie, sia ricostituendo una vigorosa deterrenza verso Hamas, anche in virtù della promessa di Netanyahu, ipoteticamente supportata dagli USA, di incrementare il controllo israeliano sulla porzione di Cisgiordania vigilata dai palestinesi, salvaguardando così la sicurezza del Paese dalle minacce provenienti da est.

Ma quale sarà l’indirizzo politico americano, forte della sua resilienza basata sulle capacità energetiche determinate dalla rivoluzione del petrolio di scisto, e restio a prendere posizioni più pesanti di quelle sostanziate dalle sanzioni economiche, considerato che ha fatto chiaramente intendere di non voler intervenire sulla presenza iraniana in Siria, non intendendo impegolarsi in un altro onerosissimo conflitto? Negli USA, dopo un ampio consenso durato più di mezzo secolo, Israele è diventato oggetto di una contesa politica potenzialmente bypassabile se si raggiungesse una visione bipartisan, e soprattutto se si riuscisse a colmare il divario esistente tra sabra ed ebrei americani, allontanati da incisive crisi di identità nazionale, su cui si innestano campagne di informazione volte ad influenzare la base della comunità israelitica.

Quali potrebbero essere i cigni neri1 da considerare da parte della litigiosa leadership israeliana? Non pochi, e nemmeno così improbabili: l’acquisizione iraniana di armamenti nucleari; uno scenario che contempli fronti attivi e contemporanei in Libano, Siria, Iran, Gaza, Cisgiordania, Golan, secondo modalità mai più affrontate dall’epoca della Guerra dei 6 giorni e che non possono prescindere da sicure alleanze e da un’efficiente logistica di aderenza; un repentino deterioramento della politica americana; il confronto con la Russia, che in Siria potrebbe assumere posizioni anti israeliane con una conseguente espansione del conflitto siriano in Libano o addirittura in Iran; il rischio di una terza intifada; la caduta dell’attuale regime egiziano e la contestuale creazione di un asse con la Turchia con una rinnovata ascesa della Fratellanza Musulmana; la caduta del regime Giordano, indebolito da una persistente crisi economica, e nelle possibili mire di un risorgente stato islamico; un confronto sempre più duro con Hezbollah, coordinato con gli USA, che riguarderà capacità offensive e difensive, fuoco e manovre a terra, difesa missilistica ed aerea.

Verso il futuro ed oltre

Sia gli USA che il pragmatico contesto sunnita presumibilmente si attendono che Israele adotti misure volte a rinnovare la fiducia nei suoi confronti, misure che rientrano del resto negli interessi di Gerusalemme che non può prescindere dalla definizione di confini, sicurezza e rassicurazioni internazionali circa il riconoscimento della sua natura democratica, altrimenti pericolosamente minata dall’irrigidimento su posizioni astoriche, peraltro indebolite sia dai segnali sauditi ed iraniani volti ad allentare le tensioni nell’area dopo l’attacco di settembre alle principali e vulnerabili strutture petrolifere di Riad – quanto mai incapace di assumere posizioni assertive e fiaccata dalle possibili aperture degli EAU verso l’Iran –, sia dalla riluttanza americana ad intraprendere azioni concrete contro Teheran, che ha dimostrato comunque di essere disposta a correre seri rischi proprio confidando nelle velleità americane; tuttavia, tenuto conto della radicale avversione tra i due Paesi, e della volubilità degli equilibri esistenti, secondo l’assunto latino del si vis pacem para bellum, non è da escludere un miglioramento della prontezza operativa di Tsahal, volto a rafforzare la deterrenza su tutti i fronti con un aggiornamento strategico indirizzato ad affrontare le capacità sviluppate da Iran, Hezbollah e Hamas, quest’ultimo carente di rilevanti opzioni militari una volta privato di razzi e tunnel transfrontalieri, ed al centro di piani operativi israeliani che puntano direttamente sui suoi centri di gravità.

Anche con i nuovi attori mediorientali, cinesi e russi, dovrebbero proseguire i rapporti commerciali e diplomatici basati su interlocuzioni aperte, ma senza che venga mai meno l’importanza dello storico alleato americano; né Russia né Cina possono fornire un supporto analogo a quello statunitense, ma quel che è importante è sia equilibrare la gestione del rischio nella politica degli investimenti del Dragone in infrastrutture critiche all’interno di Israele (facendo attenzione ai rischi connessi agli interessi cinesi verso la tecnologia occidentale), sia coordinare gli interventi russi in Siria per ridurre il sostegno all’Iran nonché limitare l’offerta di sistemi d’arma alla Siria stessa e a Hezbollah.

In ambito internazionale, Israele deve agire in modo da far cessare tutti i tentativi tesi alla sua delegittimazione, una querelle troppo rilevante perché rimanga quale mero strumento nelle mani della sua politica interna.

Conclusioni

Un nuovo conflitto che veda il coinvolgimento di Gerusalemme non è al momento desiderato dalle parti in causa: gli stessi Ayatollah, pur alzando la posta nel Golfo Persico, ricordano ancora rabbiosamente l’incontrastata violazione del loro spazio aereo a Bassora nel 2018 da parte degli F35 con la Stella di Davide.

Pericolo eluso? Impossibile dirlo con certezza, specialmente tornando indietro nel tempo, ed andando a rivedere il film della Guerra del Libano del 2006; la labilità degli equilibri di potere nell’area, unita alle carenze politiche occidentali che non agevolano la ricerca di soluzioni di lungo periodo, se è vero che spinge Israele a cercare posizioni più mediate, dall’altro non può evitare che Gerusalemme torni ad armarsi agendo in via preventiva per ridurre rischi e tempi di attesa, impedendo ad esempio pericolose occupazioni iraniane del Golan, ma innescando tuttavia conflitti che non potrebbero che essere devastanti, a cominciare dal Libano, dove Hezbollah è ormai parte integrante del tessuto istituzionale libanese, ed è sempre più abile nella disposizione asimmetrica delle forze, come accaduto durante la Guerra dei 34 giorni e come potrebbe nuovamente accadere in Israele settentrionale, con una difficile difesa delle infrastrutture critiche, non ultime quelle connesse all’attività estrattiva del gas.

Mai come ora Israele, ed il Mediterraneo, avrebbero bisogno di uno di quegli impossibili miracoli cui abbiamo accennato più su; bisognerebbe trovare chi fosse disposto a crederci davvero.

1 La teoria del cigno nero è riferita ad eventi inaspettati di grandi rilevanza e conseguenze, ed al loro ruolo storico; considerati divergenti rispetto alla norma, investono un ambito molto più rilevante dell’insieme degli eventi ordinari

Foto: IDF / U.S. Embassy Tel Aviv / U.S. Air Force