Oceani poco Pacifici

(di Gino Lanzara)
09/09/19

Il mare, nelle dinamiche internazionali, continua a conservare la sua preminenza. La geopolitica, nella sua trasversalità, fornisce le chiavi di lettura di quella che, da sempre, ha avuto il nome di talassocrazia; nulla di nuovo dunque.

Il post Guerra Fredda ha consegnato una realtà multipolare, ed anche l’asse degli interessi geopolitici si è lentamente spostato; le acque dell’Atlantico e del Mediterraneo hanno lasciato la scena a quelle di un teatro più vasto e non meno turbolento, quello dell’Indo Pacifico, popolato da attori politici globali e regionali di spessore, connotati da interessi e priorità molteplici e rilevanti, e con un armamento nucleare.

Giochiamo un po’...: è uno scenario idoneo alla deflagrazione di un conflitto a medio-alta intensità?

Gli USA sono al momento il primo soggetto politico del Pacifico, la loro new frontier, ben consapevoli di quanto quell’Oceano sia basilare per il mantenimento dello status di superpotenza, e dove il PACOM1 svolge un’azione non solo militare ma anche politica.

I Mari Cinesi orientale e meridionale sono divenuti lo snodo principe delle ambizioni di Pechino, intenzionata ad assumerne il controllo per difendere coste e traffico mercantile, evitando così in prospettiva qualsiasi forma di embargo, e generando isole artificiali negli arcipelaghi Paracel e Spratly (v.articolo), funzionali ad un’efficace azione di interdizione d’area.

A nord la Russia, con il suo gas naturale e con la precisa idea di poter disporre del proprio Oriente come risorsa strategica, è al momento il miglior sodale possibile/accettabile per i cinesi, puntati ad espandere le infrastrutture della loro BRI (Belt and Road Initiative) anche in campo moscovita; la penisola Coreana è il punto di equilibrio strategico tra Cina e USA, minacciati però dalla volitività nucleare del Regno Eremita di Kim, che spinge Giappone e Corea del Sud, protetta dal sistema missilistico THAAD (foto), ad una nuova corsa agli armamenti.

Ad oriente il Dragone è compresso dai Paesi della prima catena di isole che, come il Giappone, ne ostacolano l’accesso al Pacifico, ed in più chiamano in gioco potenze non agevoli da trattare, come l’India, restia ad accettare l’espansione economica cinese.

Taiwan, considerata isola del Pacifico e non di prossimità costiera, e malgrado non abbia un effettivo valore strategico ma geopolitico soggettivo, viene costantemente equipaggiata (inutilmente a fronte della forza d’urto cinese), e riacuisce le frizioni tra gli USA, suoi protettori ufficiali, e la Cina, intenzionata a ricondurre alla ragione la Provincia ribelle, per mezzo di una sorta di sharp power mirato ad ottenerne l’indebolimento istituzionale dall’interno.

Filippine, Malesia, Indonesia e Vietnam completano il quadro, vasi di coccio tra enormi vasi di ferro.

La geografia condiziona tuttavia le intenzioni: la Cina, consapevole della sua inferiorità tecnologica, cerca di giungere all’Oceano Indiano aggirando la strettoia di Malacca e realizzando lo scalo di Gwadar, in competizione con il vicino scalo iraniano di Chabahar, finanziato dall’India, mentre il Giappone si riarma e rivede la sua costituzionale postura pacifista, cosa che tuttavia non gli ha impedito di avere contenziosi territoriali con tutti i Paesi limitrofi; la Russia, mai così desiderosa di mari caldi, non rinuncia a puntare alla rotta settentrionale artica, destinata a rivoluzionare i traffici marittimi futuri; anche l’Australia, preoccupata dall’aggressività cinese, imposta un deciso (ma tardivo?) riarmo navale.

Vale la pena ricordare la capacità nucleare dei maggiori attori citati, cui aggiungere il Pakistan, avvinto dalle maglie della BRI, ma coinvolto in pesanti attriti in Kashmir con il gigante indiano. Stiamo ancora giocando...

Imperialismi paralleli

Un egemone non è mai interprete di un fenomeno episodico; qualsiasi proiezione di potenza per consolidarsi ha bisogno di tempo e concretezza.

Da parte americana le teorie di Mahan si stanno dimostrando ancora valide e — imponendo la necessità del controllo delle rotte — spingono gli USA a conservare in chiave anti cinese l’alleanza con il Giappone, vista la dipendenza del Dragone dai commerci marittimi.

Il contenimento della Cina è dunque stato affidato ad un equilibrio di potenza tra le nazioni dell’area grazie alla politica obamiana del pivot to Asia mirato a distogliere la Cina dai mari per costringerla ad assumere una postura continentale che, di fatto, ha incentivato la realizzazione di una via della seta potenzialmente costellata di basi militari (foto). Ma la contesa sino americana, non potendo prescindere dal valore incrementale della flotta cinese, continua a mantenere viva l’attenzione sia sull’Asia, sia sul convincimento che il futuro planetario dipenda da quel che avverrà in quest’area.

L’egemonia americana, fondata sul Potere Marittimo, suggerisce di stringere la Cina in una cintura di Paesi amici ma volubili, in grado di ostacolare navigazione e commerci, grazie anche alla particolare conformazione geografica d’area che vede il Giappone, con la potente base navale USA di Yokosuka, a guardia del Mar Cinese Orientale e del Mar del Giappone, l’Australia a difesa delle isole Salomone e di Vanuatu, e l’India, di retroguardia sui suoi arcipelaghi.

La Cina non ha mancato di rispondere e ha bypassato, per il momento, il gap tecnologico navale con il concorrente americano adottando una strategia di interdizione d’area2, ma soprattutto cominciando a proiettare potenza sia per via continentale con la BRI, sia iniziando ad adottare una postura decisamente più assertiva con la realizzazione di una base militare a Gibuti, punto di controllo dello Stretto di Bab al Mandab, ennesimo collo di bottiglia fondamentale per il passaggio mercantile mondiale (e cinese), anticamera di Suez, nonché passaggio obbligato della logistica americana per i reparti schierati in Golfo Persico. Non c’è dubbio che, data anche la natura e la classifica delle operazioni condotte da Camp Lemonnier, esista un problema securitario da parte americana per effetto della possibilità che la gestione del Porto gibutino di Doraleh passi in mano cinese, mai così proattiva, per poi procedere a nord verso l’Europa.

La rilevanza di Gibuti è testimoniata anche dai negoziati nippo-indiani, che prevedono la possibilità, per le parti in causa, di usufruire dell’assistenza logistica della controparte, e così di monitorare i movimenti navali cinesi.

Da Gibuti alla Groenlandia; dietro le schermaglie diplomatiche tra americani e danesi a seguito delle imbarazzanti esternazioni del Presidente Trump, esistono più motivazioni e di ordine diverso ma non per questo meno rilevanti. La Groenlandia offre giacimenti minerari e terre rare per l’industria, ma soprattutto si pone in una posizione strategica che valorizza la Polar Silk Road, ovvero le prossime vie marittime artiche ambite da Russi, Americani e Cinesi. Già Obama tentò, con poco successo, di isolare Cina e Russia con due trattati commerciali paralleli, il TPP per il Pacifico ed il TTIP per l’Atlantico, cercando di coinvolgere tutti i Paesi delle due sponde, e spezzando l’equilibrio stabilito con il WTO. La strategia americana tende ad impedire i movimenti, quella cinese ad aprirsi, anche forzando, magari con il finanziamento del raddoppio del Canale di Suez.

Non poteva mancare un accenno al dominio tecnologico cibernetico, ancora saldamente in mano americana. Il controllo di internet, nato in ambito militare e parallelo agli interessi geostrategici, e lo sviluppo di forme di Intelligenza Artificiale conferiscono agli USA un vantaggio non trascurabile, almeno fino a quando la superiorità tecnologica rimarrà beneficio occidentale. Il web, conseguenza diretta del crollo sovietico, si basa ancora una volta sulla talassocrazia USA, che controlla le migliaia di km di cavi posti sui fondali oceanici, e di conseguenza dispone di ogni possibile informazione utile; il tentativo cinese di gestire esclusivamente i server in patria e di utilizzare forme di A.I. per vincolare i propri satelliti coinvolti nella BRI, ha innescato l’aggressività commerciale statunitense comunque condizionata da un mercato libero e globalizzato che aspira ad entrare sulla redditizia scena cinese, e dove il Giappone è subentrato alla Cina nel detenere il maggior quantitativo di Treasury Bond USA.

Dacci oggi la nostra guerra...

Abbiamo giocato finora una sorta di risiko basandoci su dati effettivi; disponiamo la plancia. L’unica possibilità cinese di assumere il controllo della situazione è quella di combattere gli americani sul loro stesso campo: il Potere Marittimo. A fronte del calante astro navale russo, la Cina sta tentando di allestire una Blue Navy oceanica, cercando di risalire l’impervia china tecnologica, e con l’insuperabile gap della mancanza di effettive esperienze di combattimento.

Per il momento, l’unica strada percorribile risulta quella dell’interdizione d’area, finanziariamente meno onerosa ma potenzialmente foriera sia di un maggior impegno logistico per gli americani impegnati a difendere la vulnerabilità del potere aeronavale e della loro strategia multivettoriale, che però si è arricchita delle possibilità offerte dall’uscita dal Trattato INF3, aspetto che permetterebbe di posizionare missili balistici e nucleari direttamente nel Pacifico.

Qualunque colore si scelga sulla plancia, anche a fronte delle misure ibride ed asimmetriche adottate in campo economico con sanzioni e relative contromisure che puntano a spostare il baricentro dei mercati, non si può fare a meno di considerare l’ipotesi dello scontro. Possiamo immaginare di sfruttare, se ancora disponibile, il fattore tempo, un elemento utile sia ai cinesi per armare la loro flotta, sia agli americani per incrementare il gap tecnologico.

Ma quanto incideranno le nuove condizioni demografiche ed economiche della Cina cui la BRI deve mettere rimedio per dare stabilità nelle zone più interne? Quanto può rilevare, nuclearmente, la necessità di accedere a greggio e gas iraniani, sanzionati dagli USA?

Xi Jinping, uno degli ultimi principi rossi, non a caso appellato come timoniere e leader meno discreto e più deciso ed intraprendente dei predecessori, sta spingendo per modernizzare e potenziare un apparato militare che dovrà necessariamente trovare rimedio per quella che, diversi media cinesi, hanno definito la malattia della pace.

Le Forze Armate giocano dunque un ruolo strategico, considerato che ambedue i contendenti le utilizzano come fattore di rilevanza con cui misurare l’effettività delle rispettive strategie geopolitiche, e considerata la validità della trappola di Tucidide, che ipotizza la collisione tra l’egemone al potere e la potenza in ascesa.

La competizione bipolare, anche a livello nucleare, è ormai solo tra Cina, di cui è ignota la potenza di fuoco, e USA, che hanno consolidato le procedure di proiezione di potenza su base globale.

Dove non riescono politica e compromessi, il ricorso alla guerra diventa inevitabile, purché sussista un obiettivo strategico. Qui ce ne sono svariati; e qui, finiamo il nostro gioco.

1 Pacific Command

2 A2/Ad (anti-access/area-denial)

3 Trattato Forze Nucleari a gittata intermedia

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / U.S. Missile Defense Agency / Japan Ministry of Defense / Asia Maritime Transparency Initiative / U.S. Navy / Xinhua