Niger: la trappola

(di Walter Raleigh)
15/01/18

L’Africa ritorna ancora una volta all’attenzione della politica italiana; che sia un ritorno gradito o meno sarà il tempo a dircelo con la sua impietosa galanteria. Il Niger, nuovo suol d’amore e di necessità, riporta il continente africano al centro del dibattito politico interno vincolando (più o meno consapevolmente) la sua esistenza quale soggetto politico internazionale all’evoluzione del fenomeno dell’immigrazione clandestina. Intendere l’Africa quale mera appendice migrantifera del Mediterraneo dà tuttavia l’esatta percezione della povertà di vision geopolitica italiana, ovvero dell’incapacità di elaborare strategie paganti che non vengano fatalmente ed immancabilmente sconfitte da una politica carente di prospettive.

Eredi (politici) dei rinunciatari esecutivi Depretis, i governi italici, pur tra esaltanti trionfi imperiali e mortificanti debellationes, hanno sovente dato l’impressione di vestire con miglior fortuna le vesti di spettatori sicuramente ben edotti ma privi della necessaria gagliardia che ha permesso sia l’edificazione passata degli imperi coloniali anglofrancesi, sia l’attuale mantenimento di precise e fruttuose zone di influenza capaci di garantire le indispensabili prerogative imperiali.

La timidezza in politica estera non è concessa, lascia inevitabilmente il posto ad una fattispecie bellica diversa: la resa, la sconfitta dovuta allo smarrimento della comprensione di ragioni e soprattutto di interessi nazionali. Quel che ci residua, ora come ora, dopo la difficile chiusura di un’epoca coloniale controversa, è il controllo dei flussi migratori che, peraltro, ci costringono a volgere l’attenzione verso l’Africa Occidentale, tradizionalmente francofona, e dove la conciliazione degli interessi cisalpini e transalpini appare particolarmente ardua.

L’Africa è certamente un rischio, una mina pronta ad esplodere tra le mani di un governo privo di un mandato elettorale forte; è un’entità politico geografica fatta di estreme complessità verso le quali l’Italia ha saputo trasmettere solo modelli sociali peraltro riconvertiti e di breve respiro permettendo, tra l’altro, sia la penetrazione infrastrutturale e mercantile del Regno di Mezzo cinese – che richiede materie prime – sia la perpetuazione coloniale francese che, pur curando con ogni mezzo i propri interessi, non nutre alcuno scrupolo nel richiedere poi supporti stranieri. Di certo non si tratta di un modello idealmente accettabile ma, del resto, è possibile rammentare dittatori destituiti con gli aiuti allo sviluppo? È accettabile ungere il capo di leader africani con il sacro olio della democrazia solo in virtù di un’apparente empatia? L’Italia, in questo momento, per quanto riguarda la sponda africana, è rappresentata solo da poche e lodevoli eccezioni imprenditoriali che, tuttavia, non possono essere interpreti esaustive degli interessi nazionali.

L’Africa è dunque una perenne emergenza “elettorale” affrontata, sovente, in sedi neanche istituzionalmente consone; per l’Italia l’Africa è ancora politicamente all’anno zero, ed è da lì che si dovrebbe rapidamente iniziare a tessere nuovamente la tela diplomatica. Le priorità strategiche italiane risiedono in Libia e nel suo retroterra, che non può prescindere dalle ricorrenti crisi che investono il Sahel, coinvolto da terrorismo, narcotraffico, movimenti migratori incontrollati che minano le basi degli Stati di quell’area.

Le dinamiche geopolitiche vedono adesso una rinnovata e forte presenza francese, con la sua divisione concettuale del Continente in Afrique utile ed inutile, a seconda che si tratti di estensioni o città a carattere commerciale o costiero oppure di aree atte soltanto a garantire continuità territoriale tra i propri possedimenti ed estensioni mai contese dalle altre entità coloniali europee.

Emmanuel Macron, non più tardi di qualche mese fa ha arringato le truppe francesi schierate nel Mali, definendole il bastione e le sentinelle contro lo straripamento del terrorismo e del fanatismo; in questo modo ha dato continuità geopolitica agli intendimenti del predecessore Hollande che, con l’Operazione Barkhane, ha reso, dal 2014, semipermamente la presenza del gendarme francese in Africa. Questo ha ribadito la chiara impostazione politica gaullista della politica transalpina, aiutata anche dalla postura statunitense che, pur impegnata al contrasto al terrorismo fin dalla presidenza Bush, ha sempre prediletto l’opzione gallica nel continente africano quale utile strumento alla riaffermazione di una mai sopita politica di potenza.

L’intervento nel Sahel, in sintesi, serve a ridefinire i rapporti di forza in seno all’UE, conservando alla Francia il suo naturale ruolo di potenza garante, con la Spagna e l’Italia che, mantenendosi a rispettosa distanza quali osservatori interessati, lasciano il proscenio alla Germania di Angela Merkel, inattesa competitor della grandeur egemonica francese. Tuttavia, malgrado gli sforzi profusi, la situazione nell’area appare nettamente più instabile, ed in questo contesto anche i maggiori attori internazionali mostrano la loro incapacità ad esercitare un fattivo controllo; la missione ONU Minusma si sta dimostrando come una delle più pericolose nella storia dell’organizzazione e perigliosamemnte in grado di lasciare sia Francia che Germania quali concorrenti sul nulla.

Arriviamo dunque ora all’intervento italiano, così vibrantemente richiesto al Vertice estivo di Celle Saint Claud dal presidente Macron. In attesa che si definiscano le linee guida della nostra partecipazione, cominciamo ad esaminarne i caratteri salienti. Innanzi tutto l’esposizione finanziaria, che non sembra essere di poco conto (423 Mln. di euro complessivi), imporrà presumibilmente la riduzione del contingente in Irak; la presenza di ulteriori contingenti europei, inoltre, permetterà alla Francia di alleggerire gli organici dell’Operazione Barkhane riducendo il forte impegno nazionale pur mantenendo intatto il comando delle attività nelle sue ex colonie.

Il rischio di vedere il contingente italiano relegato ad un ruolo gregario, ma non per questo meno rischioso, è più che fondato, e proprio a favore ed a supporto di quella potenza – la Francia – che continua ad essere il peggior rivale italiano in Libia. Del resto, non può essere dimenticata l’ambiguità di fondo che vuole - retoricamente – l’operazione svolta all’insegna della pace così tanto elettoralmente desiderata. Nella regione nigerina interessata, i traffici illeciti sono del resto gestiti dalle organizzazioni jihadiste e rappresentano dunque le due facce della stessa medaglia che, al di là delle affermazioni di principio, non si intende come si vorrebbero debellati se non con le armi.

È stato affermato, dopo le recise smentite del mese di maggio 2017, che la missione avrà caratteristiche addestrative necessarie a rendere i reparti nigerini capaci di fronteggiare sia il traffico di migranti che il terrorismo; non si capisce allora perché non schierare il contingente nazionale presso l’Aeroporto di Niamey, dove sono già operative le basi francese, tedesca e statunitense, che opera tuttavia in modo completamente autonomo, assegnandogli invece l’onerosissimo pattugliamento del confine tra Niger e Libia lungo 600 km di territorio attraversato da piste che possono essere controllate solo presidiando l’ex avamposto della Legione Straniera di Madama.

Il dispiegamento delle nostre unità presso la base di Madama comporterà degli inevitabili ed elevatissimi oneri logistici dovuti alla necessità di far pervenire supporti, truppe e rifornimenti in significativa quantità e, soprattutto, per via aerea. Inoltre, il pattugliamento dell’area – ancorché desertica – porterà inevitabilmente ad operazioni di contrasto sia a jihadisti che a trafficanti che, per ovvi motivi, non possono prescindere dal combattimento. Come potrà essere interpretata, quindi, la presenza di soldati infedeli nella zona?

La necessaria autonomia al contingente non potrà che essere assicurata con supporti operativi e logistici che necessiteranno di almeno 1.000 unità con un costo superiore ai 150 milioni di euro l’anno; a tutto ciò va necessariamente aggiunta l’ovvia considerazione che riguarda la possibilità, per le forze ribelli, di aggirare semplicemente il dispositivo di controllo italiano con opportuni sconfinamenti in Algeria per accedere alla Libia da sud.

Per bloccare i flussi migratori clandestini forse non c’è il bisogno di dispiegare un ulteriore contingente oltremare, ma sarebbe sufficiente consegnare alla guardia costiera libica (già peraltro supportata dall’Italia) i migranti illegali soccorsi nel Mediterraneo. Non è ancora chiaro se l’operazione sarà una versione multinazionale dell’operazione francese Barkhane, condotta cioè con regole d’ingaggio indipendenti, ma quel che è certo è che richiederà un impegno della logistica dei trasporti notevolissimo, data anche l’estrema carenza europea di trasporti aerei strategici.

Lo schieramento di truppe sul campo aumenterà di certo anche i bersagli a disposizione delle forze jihadiste, alla luce anche del fatto che non è ancora chiaro quali e quanti Stati autorizzeranno l’impiego dei propri militari in azioni di combattimento. Se è vero che il Sahel costituirà un test per le capacità belliche della difesa europea, è però altrettanto vero che sarà inevitabile il manifestarsi di confronti di interessi ed egemonie.

I francesi continueranno dunque a giocare in casa; la consistente presenza militare nella regione, l’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche confermano la certezza che il bastone del comando rimarrà in mano transalpina. La missione italiana, indubbiamente, alla luce delle considerazioni esposte, indica una nostra nuova debolezza ed un successo francese.

Il nostro task ha dunque un senso? Strategicamente vale la pena schierare un nostro contingente così numeroso ed equipaggiato ma in condizioni di subalternità all’interessato alleato francese? La missione in Niger permetterà alla Francia di ridurre costi ed impegno senza scalfirne la leadership, e dunque non ha alcun senso rischiare uomini e mezzi, laddove poi navi militari italiane ed europee continueranno a sbarcare nei nostri porti i clandestini riusciti a partire dalle coste libiche.

Ha un significato esporsi per un alleato che nell’area ha interessi che, ancorché rilevanti, non gli hanno impedito di inerire negli affari italiani in Libia? Ad oggi in Niger si trovano truppe tedesche che, affiancandosi alle francesi legittimano l’accordo interstatuale tra Francia e Germania; il tutto mentre l’Italia va a contrastare l’Isis ed i trafficanti di uomini in una prova generale dell’intersezione africana nella sorte europea o, per dirla con un’espressione cara al ministro Minniti, nel momento storico dello spostamento delle frontiere europee in Africa. Quel che pian piano risalta è che non si tratta solo di un compito umanitario, ma di un chiaro esercizio di potere egemonico francese.

Le domande (ed i dubbi) sono tanti, specie se si riesce ad uscire dalla consueta retorica buonista: quali sono ruoli, responsabilità, impegni e diritti nella ripartizione dei vantaggi, caso mai ce ne fossero? Dei target poco chiari porterebbero fatalmente a delle ripercussioni anche in ambito Mediterraneo, specie se si dovesse tener conto della presenza nigerina di Boko Haram e del fatto che la frontiera libica, volente o nolente, è affar nostro.

La missione, negli intenti pubblicizzati, dovrà stabilizzare il Sahel o, meglio, la Françafrique malgrado la scarsa considerazione nazionale per la politica estera ed i suoi aspetti militari. Quel che è certo, ed è da rimarcare, è che comunque l’Italia muoverà i suoi uomini ed i suoi mezzi per alleggerire compiti e responsabilità di chi, in quell’area, contribuendo di proposito alla sua destabilizzazione, ha intaccato i nostri interessi nazionali continuando a considerarci competitors di rango inferiore.

(foto: Présidence de la République française / U.S. DoD / U.S. Army / Ministère des Armées / EUNVFOR MED)