Migrazioni e conflitti moderni

(di Antonio Vecchio)
03/03/16

Non sappiamo neppure quanti siano; c’è chi dice 200.000, chi 400.000, altri addirittura 600.000. Quanti  migranti economici, rifugiati, quanti i profughi. Ed anche questo è parte del problema; perché sarebbe d’obbligo un po’ di chiarezza in chi è istituzionalmente preposto a gestire nel continente le migrazioni forzate di questi mesi.

Un problema che l’Europa, impreparata come mai, simulacro di un contenitore ormai vuoto, sta affrontando senza alcuna visione d’insieme, lacerata al suo interno dagli Stati dell’Est (Ungheria, Bulgaria, Slovenia, Grecia) - ma anche Austria, Danimarca, Svezia - intenti ad arginare, anche fisicamente, la rotta balcanica, e quelli tradizionali del vecchio continente, incapaci di scegliere tra il terrore del proprio futuro e la propensione generalizzata all’accoglienza, sottilmente propinata da certa cultura politica e da parte del mondo cattolico.

La prima, terzomondista, ha da tempo sostituite le masse dei proletari con quelle dei disperati in perenne cammino, con un occhio  ad un possibile allargamento del proprio bacino elettorale.

Il secondo, quanto mai in crisi anche al suo interno, spinto dalla necessità di trovare terreni di dialogo e uno spazio comune con una confessione destinata a diventare nel medio termine, se non maggioritaria, perlomeno la più influente in un continente laicista, sembra alla ricerca di un difficile equilibrio fra magistero e consenso.

In questo quadro di situazione, anche i media non aiutano a far chiarezza, bombardando ripetutamente le opinioni pubbliche con foto di natanti stracolmi e di bambini senza vita restituiti alle nostre coste, salvo poi sorvolare abilmente sulla preponderanza, nelle moltitudini in arrivo, dei maschi in età da soldato (16 -40 anni)  - oltre il 75%  -, e su come alcuni di loro possano pagare sino a € 7.000 per viaggio. 

Si fa anche riferimento alla demografia (invecchiamento della popolazione) per dare una valenza positiva ai nuovi arrivi, accennando anche alla necessità che vi sia pur qualcuno disposto a pagarle le nostre pensioni, sino a sostenere  – come lvo Diamanti su la Repubblica del 1 febbraio – che “per non estinguerci, per non finire ai margini, dovremmo davvero chiudere le frontiere. Verso Nord. Per impedire agli immigrati (…..) di andarsene altrove. E di lasciarci a casa nostra sempre più vecchi. Sempre più soli(…).”

Punti di vista legittimi in un dibattito aperto e plurale di una società evoluta come la nostra.

Ma vi è anche un'altra chiave di lettura, che vede nel fenomeno migratorio un qualcosa accuratamente indotto per colpire l’Europa al suo interno, minandone irrevocabilmente la coesione sociale. 

Kelly M. Greenhill della Harvard Kennedy School le  ha chiamate  “coercive engineered migrations, emigrazioni progettate coercitive” ossia movimenti transfrontalieri che vengono deliberatamente creati o manipolati al fine di strappare concessioni politiche, militari e/o economiche ad uno o più stati presi di mira”.  

Un’arma non convenzionale, strumento di un nuovo modo (asimmetrico) di fare la guerra, come quello teorizzato nel 1995 da due colonnelli cinesi, Quiao Liang e Wang Xiangsui , nel libro “Guerra senza limiti” (Libreria Editrice Goriziana, 2001), con il commento di Fabio Mini.

L’immigrazione come strumento bellico, che agisce in due tempi: prima forzando il contendente a gestire nell’immediato il fenomeno degli arrivi, predisponendo la relativa accoglienza; poi costringendolo a governare le innumerevoli problematiche di ordine interno causate dall’integrazione (?) nel tessuto  sociale di un tale corpo estraneo. Il tutto con il fine ultimo di indebolire progressivamente l’ospitante.

L’immigrazione come arma di una “guerra senza limiti” combattuta con mezzi e strategie diversi da quelli dei conflitti classici (simmetrici, lineari, razionali, improntati a una logica cartesiana); una guerra combattuta (anche sul suolo europeo) senza soldati, fucili e cannoni, ma con strumenti  “non militari” (economici, sociali, politici, terroristici, finanziari, dell’informazione), al fine di destabilizzare i gangli dell’organizzazione statuale.

Una guerra che vede nei profughi non una conseguenza del conflitto, ma il conflitto stesso, così come  recentemente scritto da una studiosa americana: “è cambiata la natura stessa della guerra; i rifugiati oggi sono la guerra”.

Interpretare i fenomeni che stiamo vivendo in tale ottica non sarà forse politicamente corretto,  ma aiuterebbe – credo -  a renderci meno vulnerabili.

(Foto: web)