La linea rossa delle armi chimiche in Siria

(di Federico Castiglioni)
24/05/18

Citando il discorso del presidente francese Macron che giustificava l’intervento in Siria, ci sono poche cose che la Comunità internazionale può oggi fare per prevenire e gestire i conflitti interni agli Stati sovrani. La “linea rossa” che nessun governo può oltrepassare è costituita dal rispetto dei civili nelle zone di conflitto e dal divieto di uso di armi chimiche o batteriologiche. Questi sono gli unici casi, almeno secondo il diritto internazionale, in cui la sovranità degli Stati è limitata da alcune norme di comportamento generali che se non rispettate possono portare all’intervento di altre nazioni nel conflitto. Questi pilastri dell’attuale ordine internazionale non sono solo garantiti dalle Nazioni Unite ma anche dagli accordi di Ginevra nelle loro diverse edizioni, dalla seconda guerra mondiale ad oggi.

Nel caso siriano proprio uno di questi tabù, l’utilizzo di armi chimiche con vittime civili, sembra essere stato infranto negli ultimi mesi e questa violazione giustificherebbe l’intervento armato contro Bashar Al-Assad compiuto dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia lo scorso 14 aprile. Ma che prove abbiamo dell’uso di armi chimiche da parte del regime di Damasco, dall’inizio della guerra civile del 2011 ad oggi? La risposta non è semplice. Ad oggi infatti nessuna prova inconfutabile è stata presentata davanti alla comunità internazionale, ma la questione è tornata di attualità nei giorni scorsi quando è stato pubblicato un primo report da parte degli espettori dell’Organisation for the prohibition of chemical weapons che denuncia l’uso di armi al cloro durante gli scontri avvenuti nel febbraio scorso vicino alla città di Saraquib, nel Nord del Paese. Anche se sembra dalle testimonianze e dalle prove scientifiche raccolte dall’Agenzia delle Nazioni Unite che siano state usate armi chimiche con vittime civili, resta il dubbio su chi le abbia utilizzate nel complesso conflitto che ormai da anni funesta la regione.

Nell’ormai tristemente celebre strage di Douma il 7 aprile scorso trovarono la morte circa 70 persone, la maggior parte delle quali civili non combattenti. I medici riconobbero nelle vittime i segni di un’intossicazione non meglio precisata ma affine a quella da gas Sarin. A fine aprile gli ispettori dell’ONU si recarono a Douma, circa 300 chilometri a sud di Saraquib, nel Sud della Siria, ma lamentarono di essere stati ostacolati nelle loro ispezioni e poi mandati indietro dalla polizia di Damasco. Si deve ricordare che il sito era stato fino a pochi giorni prima teatro di una sanguinosa battaglia e gli ispettori russi erano, secondo il governo siriano, già all’opera per cercare delle prove su chi fosse il responsabile della strage. Sembra ormai sicuro che le armi chimiche utilizzate a Duma fossero armi al cloro simili a quelle di Saraquib. Per la verità le armi al cloro, a differenza per esempio del gas Sarin, sono di facile fabbricazione e di certo non così innovative o complesse da aver bisogno di una grande ricerca tecnologica. Anche l’ISIS secondo la BBC avrebbe fatto uso di armi chimiche artigianali con sostanze simili al cloro in almeno due occasioni tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018. A complicare e rendere più confusa la situazione l’invito di russi e siriani fatto alle Nazioni Unite ad accertare la presenza di un laboratorio per armi chimiche creato dagli oppositori del regime nei pressi di Ghouta, area di Damasco ripresa dai lealisti nel febbraio scorso.

In questo quadro complesso di verità contrastanti quello che è certo è che il regime di Assad possedeva, almeno fino al 2013, un arsenale di armi chimiche che comprendeva anche il letale gas sarin (come accertato dagli ispettori dell’Onu all’epoca). Dall’ottobre del 2013 Assad, in un segno di buona volontà a cui lo forzarono le pressioni internazionali, aderì alla Convenzione per lo smantellamento delle armi chimiche e da allora Damasco nega di essere direttamente in possesso di questo genere di armamenti. Resta il dubbio su che fine abbiano fatto i depositi esistenti fino ad allora nel caos in cui è caduta la Siria negli ultimi sei anni. Il fatto che non siano state trovate prove che incriminano in modo inequivocabile il regime, nonostante la massiccia presenza di giornalisti occidentali e di agenzie non governative che operano dall’inizio della guerra, dovrebbe portare ad un approfondimento e a una riflessione e non ad interventi di rappresaglia che possono rivelarsi più mossi dall’emotività pubblica che da ragioni legate al diritto internazionale. Purtroppo anche in questo caso la drammatica questione delle armi chimiche si lega a strategie e interessi legati al più vasto quadro geopolitico regionale. Sembra infatti ormai che nulla possa impedire a Bashar Al Assad di riunire il Paese sotto la sua guida, una vittoria che egli deve in larga parte all’aiuto russo e dei Paesi a maggioranza sciita limitrofi. La possibilità di una vittoria totale di Assad, unita al risultato delle recenti elezioni in Iraq in cui ha trionfato un governo che simpatizza con l’Iran, prospettano per Israele e Arabia Saudita uno scenario fosco in cui un blocco sciita a trazione iraniana controlla l’intera regione mediorientale, dai confini del Pakistan al Libano.

Per decenni questa possibilità era stata evitata grazie alla presenza di Saddam in Iraq e all’influenza egiziana nell’area, ma la seconda guerra del Golfo e le Primavere arabe sembrano aver sconvolto il quadro geopolitico e confermato Teheran come unico vero attore stabile regionale. La possibilità di un Medio Oriente a guida sciita, oltre a preoccupare gli israeliani per la minaccia iraniana, è anche pericolosa per gli americani che scorgono la chiara ombra di Mosca dietro a questo nuovo assetto geostrategico. È quindi possibile che l’accusa di usare armi chimiche, vera o presunta che sia, possa tramutarsi in un nuovo casus belli per ribaltare le sorti del conflitto. Non sorprende in questo caso la posizione della Francia, che fin dal primo momento ha sostenuto l’opposizione siriana al regime di Assad, né della Gran Bretagna sempre più legata all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo. Del resto andando indietro con la memoria di qualche anno si ricorderà che furono proprio le accuse mosse a Saddam sulle armi di distruzione di massa, accuse poi rivelatasi in gran parte infondate, a determinare l’intervento americano in Iraq del 2003. Tuttavia a differenza di allora gli Stati Uniti sembrano indeboliti nella loro capacità di intervento e la Russia è coinvolta negli affari regionali con un’intensità che non si vedeva dalla fine della guerra fredda. Un intervento diretto della Nato potrebbe aprire un fronte di tensione gravissimo a livello internazionale con conseguenze inimmaginabili, tanto da far impallidire a confronto la crisi ucraina.

(foto: SANA / UN / web)