La Brexit della Difesa: chi sostituirà la Gran Bretagna?

(di Federico Castiglioni)
13/12/17

Siamo arrivati alla fine del 2017 e sembra che, finalmente, i negoziati per la Brexit procedano speditamente e che si sia molto vicini ad un accordo. Tuttavia sono ancora ignoti i dettagli di una procedura che può cambiare gli interi equilibri macroeconomici continentali e avere un effetto shock su centinaia di piccole e grandi imprese europee.

Come tutti i settori anche la Difesa è toccata dal divorzio imminente, e questo non solo perché le aziende britanniche di armamenti, come BAE Systems, sono tra le più grandi ed efficienti al mondo ma anche perché la Gran Bretagna ha sempre dato un contributo fondamentale alla cooperazione europea sulla difesa in chiave intergovernativa.

Proprio adesso che l’Unione con l’attuale Cooperazione Strutturata permanente (PESCO), iniziata sotto gli auspici dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, si prepara ad iniziare una liberalizzazione parziale del settore degli armamenti1 la Gran Bretagna che di questa liberalizzazione era stata tra le promotrici si ritrova potenzialmente esclusa dal mercato europeo, uno dei principali al mondo.

Le conseguenze della Brexit nel settore della Difesa saranno probabilmente tangibili dal 2020. Infatti nel prossimo quadro finanziario pluriennale dell’UE (che coprirà come consueto sette anni, dal 2020-2026) si dà per certo che saranno stanziati molti fondi per l’armonizzazione delle strutture di comando, degli armamenti e della ricerca sulla Difesa, portando a coronamento un lavoro che è già in atto da diversi anni e che ha ormai identificato questi settori come la punta di diamante del processo di integrazione europea. In un quadro come quello che si sta definendo, in cui gli Stati trasferiscono sempre più risorse ad un livello sovranazionale, ci si deve chiedere quali siano i punti di forza e le incognite che la Brexit porta in dote con sé.

Gran parte dei costi del divorzio tra l’isola e il continente graviteranno sul prossimo bilancio dell’EDA, l’Agenzia Europea per la Difesa. Se quest’agenzia sarà effettivamente il veicolo attraverso il quale affluiranno le risorse previste nel prossimo piano pluriennale europeo allora le aziende britanniche non potranno chiaramente beneficiarne. Nel concreto questo creerà problemi non da poco. Si pensi ad un caso che ci riguarda da vicino, la Matra BAE Dynamics Alenia, consorzio europeo di missilistica detenuto al 25% da Alenia Marconi (ora Leonardo) ma in cui la quota di maggioranza è della BAE Systems2. Nel caso in cui ci fossero dei fondi europei per la ricerca missilistica, ipotesi tutt’altro che peregrina, privilegerebbero le aziende che assicurano delle attività sul continente rispetto alle altre. Questo renderebbe la stessa esistenza del consorzio, finora leader nel settore, di dubbia utilità, a meno che non si trovi un qualche tipo di coordinamento tra le iniziative dell’EDA e la Gran Bretagna. Strettamente connesso al problema dei fondi europei è quello della mobilità del lavoro e degli investimenti. Infatti in caso di hard brexit anche nel caso in cui ci fossero dei programmi di cooperazione bilaterale tra Paesi si dovrebbe valutare la convenienza di progetti congiunti, dato che i costi del movimento di merci, persone e capitali potrebbe risultare ostativo verso qualsiasi iniziativa che preveda il coinvolgimento di Londra. Anche qui si può fare un esempio concreto, quello dell’OCCAR, l’Organizzazione congiunta per la cooperazione in materia di armamenti. Questo organismo di secondo livello è nato negli anni ’90 per aprire la strada ad una cooperazione europea sugli armamenti. È attiva dal 2001 e ne fanno parte i principali Stati dell’Europa occidentale (Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio e Spagna). A differenza dell’Eda questa struttura non è legata all’Unione Europea ma è basata su un accordo multilaterale tra i Paesi fondatori, che si impegnano a sostenere dei progetti congiunti. L’OCCAR ha sviluppato e sta sviluppando importanti progetti, per esempio il quadrimotore di trasporto militare Airbus A400M (foto seguente). Questa struttura potrebbe essere quindi uno dei principale pivot di collegamento tra la Gran Bretagna e i Paesi europei interessati a collaborare con essa al di là dei fondi europei, continuando una tradizione di rapporti e investimenti bilaterali o multilaterali che hanno contraddistinto la storia europea recente. Questo potrebbe essere un possibile scenario se non fosse per le clausole stesse della Brexit. Infatti un qualsiasi progetto, anche militare, che coinvolga la Gran Bretagna come partner deve tenere conto della possibilità che tutti i costi di trasferimento e gestione possano anche raddoppiare da qui a due anni nel caso in cui si trovino delle intese specifiche.

Queste incertezze sono chiaramente legate alle clausole dell’accordo definitivo tra Londra e Bruxelles che ancora non è noto, ma che può probabilmente rivelarsi distruttivo soprattutto per il settore della Difesa britannico per tre ragioni. La prima è quella evidente e già accennata dei costi che potrebbe portare una hard brexit per le imprese europee che volessero investire nel Regno Unito e viceversa. La seconda è il pericolo per la Gran Bretagna che questo afflato europeo per la cooperazione in materia di Difesa si traduca soprattutto, come sembra di capire, nel settore della Ricerca e sviluppo. Infatti ancor più che per la produzione il problema del Regno Unito attualmente è di essere escluso dai suoi partner storici continentali e di doversi quindi rassegnare ad un ruolo subalterno, come appendice dei programmi di ricerca e sviluppo americani. Il terzo problema di Londra è invece legato all’inevitabile lievitazione dei costi per la Difesa che certamente la Brexit comporterà, anche nel caso in cui dovesse essere soft. Il precedente cancelliere dello scacchiere, George Osborne, sostenendo il Remain aveva immaginato dei tagli per la Difesa di circa un miliardo in caso di uscita del Paese dall’Unione Europea. Questi costi probabilmente non tenevano conto né dell’indebolimento della sterlina degli ultimi mesi, né della possibilità che a Londra venisse chiesto di pagare un prezzo cospicuo (più di 50 miliardi sembra) come risarcimento nei confronti dell’Unione. La posizione inglese è quindi anche più complessa di quello che si immaginava e ciò porta a pensare che la Difesa, come le altre voci del bilancio britannico, subirà un forte ridimensionamento nei prossimi anni, tale da far dubitare della capacità di proiezione esterna del Paese in un futuro prossimo, nonostante con tutta evidenza i piani nazionali fossero altri (esemplificativa tutta la storia delle due Queen Elizabeth, per chi l’avesse seguita).

La possibilità molto concreta di un indebolimento britannico, che si tradurrebbe quasi certamente in un disimpegno operativo, è anche quella che probabilmente dovrebbe preoccupare i partner continentali. Infatti com’è noto il Regno Unito è uno dei pochi Stati europei, insieme alla Francia e all’Italia, con una tradizione di dispiegamento di missioni all’estero. La storica alleanza e cooperazione franco-britannica, testimoniata da ultimo dagli accordi di Lancaster House del 2010, è basata proprio sulle possibili sinergie operative negli scenari di crisi. I due Paesi nel 20103 avevano infatti convenuto alcune procedure e iniziative di dispiegamento rapido all’estero. Gli accordi prevedevano sia la creazione di una Combined Joint Expeditionary Force, principalmente basata sul contributo dei rispettivi reparti speciali, sia di una Naval strike force che vedeva al centro l’interoperabilità delle tre portaerei delle due nazioni. Nonostante la longevità della cooperazione militare tra Londra e Parigi resta difficile immaginare come una Gran Bretagna alle prese con questi problemi possa essere considerata affidabile anche dal semplice punto di vista operativo. Senza l’asse franco-britannico sulla Difesa, con tutte le sue criticità, l’Unione Europea potrebbe trovarsi sprovvista di Paesi volenterosi di prendere l’iniziativa in caso di crisi internazionale. Gli strumenti messi a disposizione da Bruxelles, come la storia dimostra, sono inutili senza qualcuno disposto a cogliere anche la sfida politica dell’intervento. Una risposta positiva a questa nuova sfida potrebbe essere la possibilità che alcuni Paesi, da decenni periferici nel campo della proiezione esterna, come la Germania, o poco considerati come l’Italia si mostrino disponibili ad un più grave impegno per colmare i deficit britannici. Questa strada non può però prescindere da un serio investimento di questi Stati sulla Difesa e non solo in termini economici4.

Insomma se si vuole intendere la Brexit non solo come un costo, cosa che sicuramente sarà per gli inglesi e forse anche per qualche azienda europea che ha investito nel Regno Unito, ma come un’opportunità non basta che si pensi agli asset che si potrebbero prendere dal Regno Unito (come sta facendo per esempio la Francia, adocchiando le componenti prodotte in Gran Bretagna dall’Airbus) ma anche vedere l’opportunità di una nuova cultura della Difesa sul continente, che sappia coniugare per una volta la volontà politica richiesta dall’efficienza operativa negli scenari di crisi alla legittimità internazionale necessaria per ogni intervento esterno.

 

1 Si intende la possibilità di bandire degli appalti europei a cui partecipino più nazioni, scalfendo quel protezionismo degli approvvigionamenti che ha da sempre contraddistinto il mercato della Difesa.

2 La BAE, principale firma britannica della Difesa, si sta disimpegnando tuttavia da una decina d’anni dal continente, ad esempio uscendo da Airbus, rivolta sempre di più verso il mercato americano. Le partnership principali sono, ad oggi, proprio con Finmeccanica.

3 Sulla scia di una tradizione ormai secolare e che non raramente è stata legata anche all’approfondimento della cooperazione europea sulla Difesa, come a Saint Malò nel ’98.

4 Questo vale soprattutto per la Germania chiaramente, vista la disponibilità italiana a partecipare a missioni internazionali che nessuno può mettere in dubbio.

(foto: MoD UK)