I pericoli per l’economia mondiale: Cina sempre più aggressiva

(di Massimiliano D'Elia)
29/12/15

Pechino sostiene che, secondo l'accordo di adesione all'Organizzazione mondiale del commercio (Omc), del 2001, la Cina nel 2016 diventerà automaticamente un'economia di mercato.

Cosa vuol dire? Un Paese che vuole fondare la propria organizzazione economica sulla proprietà privata, sulla libertà d’impresa e sullo scambio di beni e servizi in mercati liberi.

Il timore è che, permettere ad un colosso quale la Cina di immettere nel mercato i propri prodotti e capacità industriali, potrebbe significare per noi dover ridisegnare la politica e l’organizzazione economica.

Il costo del lavoro in Italia e nei Paesi dell’Unione è molto alto poiché comprende tutele previdenziali per i lavoratori e adeguamenti a salvaguardia dell’ambiente per gli impianti industriali. Nel prezzo finale del prodotto è inserito tutto. In Cina, invece, persiste il fenomeno dello sfruttamento dei lavoratori e dei minori, il problema della scarsa qualità delle materie prime utilizzate, il mancato adeguamento delle industrie alle rigide direttive previste dal Protocollo di Kyoto in materia dei gas serra.

In sintesi, consentendo alla Cina di poter esportare, in maniera convenzionale ed autonoma, i propri prodotti si potrebbe creare un corto circuito finanziario a causa dell’eccessiva differenza nei prezzi di uguali prodotti. Di contro, invece, si potrebbe aprire un accesso unico e virtuoso per i prodotti occidentali verso il mercato cinese.

La Commissione Europea, come detto, è chiamata quest’anno a doversi esprimere sul riconoscimento o meno della Cina, quale economia di mercato. Come sempre il parere dei Paesi dell’Unione non è univoco. La proposta deve essere approvata da tutti i 28 Stati membri. Tra loro il principale sostenitore è il Regno Unito, mentre l'Italia è fermamente contraria. La principale economia dell'Unione, la Germania, ha una posizione ambigua: alla fine di ottobre, in occasione di un incontro col primo ministro cinese, Li Keqiang, a Hefei, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, dichiarò di essere favorevole "in linea di principio", ma in altre circostanze ha ammesso che il riconoscimento potrebbe essere un'arma a doppio taglio e che il paese asiatico ha ancora molta strada da fare, soprattutto in materia di assegnazione degli appalti pubblici. Ha sottolineato, inoltre, la vulnerabilità di alcuni settori industriali europei, da quello dell'acciaio a quello dell'energia solare.

Per i sostenitori, il riconoscimento potrebbe aprire la strada agli investimenti industriali europei in Cina e a quelli cinesi nelle infrastrutture dell'Unione; per i detrattori, minaccerebbe le industrie siderurgica, ceramica e tessile perché sarebbe più difficile applicare tariffe “antidumping”.

Anche gli Usa mettono in guardia l'Europa da una svolta che potrebbe provocare un'inondazione di prodotti cinesi a basso costo nei mercati statunitensi ed europei. L'Economic Policy Institute di Washington stima in 3,5 milioni i posti a rischio.

Secondo fonti della Commissione, invece, i timori dell'industria sarebbero esagerati; a loro tutela si potrebbe ricorrere alle misure di salvaguardia, come quelle contro i sussidi pubblici, usate nei confronti di altre economie di mercato.

In un mondo globalizzato è inimmaginabile non favorire a tutti l’ingresso libero nei mercati. Con prudenza e coralità, l’inevitabile rivisitazione di alcuni parametri commerciali potrebbero favorire un po’ tutti, dai consumatori ai produttori, specialmente in una economia, quella attuale, che mostra sempre più sintomi di stagflazione: modestissime variazioni del PIL, blocco stipendiale dei lavoratori e aumento dei prodotti al consumo superiore alle capacità di acquisto.

Probabilmente abbiamo bisogno del corto circuito che si potrebbe creare con i prodotti e le capacità cinesi.