Foreign fighters e Jihad

(di Antonio Vecchio)
25/03/16

Il tema dei Foreign Fighters (FF), ovvero di quei “combattenti per il jihad non originari delle entità statuali nelle quali volontariamente prestano il loro servizio”, costituisce uno degli argomenti più seguiti degli ultimi anni non solo dal mondo accademico.

Se la loro presenza è stata storicamente circoscritta al mondo arabo islamico, è con il conflitto afghano che si configura come vero e proprio fenomeno in espansione, che porterà a stimare in circa 15.000 gli stranieri ivi giunti per combattere contro i sovietici durante il trentennio 1980- 2010.

Quantità ampiamente superata dal numero di quelli (20.000) che, negli ultimi quattro anni, hanno raggiunto il "Siraq" per unirsi a Daesh, il 20% dei quali proviene dall’Europa, e almeno 3-5000 hanno già fatto rientro negli Stati di origine, creando un non secondario problema di homeland security.

Il ricorso a mercenari stranieri non è una novità; lo stesso Occidente ne ha fatto più volte uso.

Si pensi alle compagnie di ventura tipiche dell’Italia rinascimentale; e, in epoca contemporanea, alla presenza di soldati stranieri nei reparti legionari di Francia e Spagna.

Mai però si era assistito all’accorrere da ogni dove di una tal quantità di combattenti per rispondere ad una chiamata “ideale” - al tempo stesso politica e religiosa -, prima ancora che al desiderio di avventura e di realizzazione, anche economica.

Ed è proprio questo aspetto a caratterizzare la natura esiziale dell’intero fenomeno jihadista, che aspirando a una nuova entità geopolitica a sud e ad oriente del vecchio continente, rappresenta per la comunità internazionale una seria minaccia (già) in grado di condizionare le nostre stesse esistenze.

Il presente articolo si propone di fornire elementi di conoscenza sui principali aspetti di questo fenomeno, con il quale – se qualcuno non se ne fosse accorto - dovremo convivere per i prossimi 10-20 anni.

Terrorismo e combattimento convenzionale

Qui occorre partire dalla definizione accreditata di terrorismo, che per la Treccani è “l’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili”.

Il terrorismo è solo il prodotto di una strategia volta a disseminare terrore e insicurezza nel nemico e nella sua popolazione, oltre che a rafforzare nei propri ranghi la fiducia verso la causa; da questo punto di vista, i Foreign Fighters (FF) hanno dimostrato, nei recenti attentati in Turchia, Tunisia, Parigi e Bruxelles, di saper ampiamente usare metodi di combattimento di tipo asimmetrico.

Per contro, le truppe di Daesh hanno anche palesato capacità militari tradizionali di comando ed condotta (si pensi alla conquista di Ramadi, Racca, Mosul), che li han portati ad annettersi, in circa un anno, un terzo del territorio iracheno e la metà di quello siriano.

In tale avanzata, sono stati certamente aiutati dalla contiguità con le comunità sunnite in Siria e Iraq, ma pur sempre guidati dalle esperienze di combattimento portate in dote dai molti veterani delle guerre caucasiche, in Iraq e Afghanistan.

Ed è proprio questa capacità di azione su due livelli (simmetrico ed asimmetrico) che conferisce loro la capacità di colpire contemporaneamente il nemico “vicino” (i mussulmani sciiti, i leaders delle nazioni arabe considerate al servizio dell’Occidente, le popolazioni locali che non sposano la loro confessione) e quello “lontano” (Europa, Russia e USA).

Il primo, mediante l’utilizzo di “unità convenzionali” addestrate militarmente in loco (per circa 4 mesi) prima dell’impiego sui campi di combattimento; il secondo, ricorrendo ai combattenti rientrati in Europa, ai giovani reclutati pescando nel disagio sociale ed economico delle nostre città, alcuni dei quali, i cosiddetti “lupi solitari”, agiscono come veri e propri sistemi d’arma “stand off”, incontrollabili, una volta (auto)attivatisi.

Esiste, infatti, anche un Jihad individuale – quello teorizzato dal siriano Abu Musab al Suri – secondo cui “il singolo può aderire alla lotta senza necessariamente dover creare un gruppo” attraverso “un addestramento pratico personale, svolto tra le mura domestiche”.

Chi si unisce alla Jihad?

Recenti studi statunitensi e britannici hanno posto in luce come disadattamento, emarginazione, esclusione sociale e crisi d’identità rappresentino le costanti di tale categoria, peraltro caratterizzata significativamente da giovani con problemi di criminalità (per l’50% con carichi pendenti) e da soggetti con turbe mentali (20% del totale).

Sono di solito cittadini immigrati di seconda o terza generazione, i cui padri risultano ben integrati e con tendenze moderate; hanno un’età media di 18-29 anni (a volte scende a 15-17), sensibilmente più giovane dei combattenti affluiti in Afghanistan nel trentennio 1980-2010 (25-35).

Sono perlopiù maschi, anche se nell’ultimo periodo si è osservato un crescente interesse verso il reclutamento di donne, in prevalenza provenienti da paesi occidentali.

Nonostante la presenza di moltissimi veterani del Caucaso, Iraq e Afghanistan, la gran parte dei giovani che si uniscono al Jihad non possiede addestramento militare; in compenso ha un livello di scolarizzazione medio-alto, con una significativa percentuale di soggetti laureati.

Non si creda che la motivazione religiosa sia decisiva nello spingerli ad unirsi al Jihad: molti - soprattutto quelli provenienti dall’Europa - sono tendenzialmente atei o agnostici, e si convertono all’Islam poco prima di partire, conservando una conoscenza religiosa rudimentale.

La religione però catalizza, agevola il latente senso di rivolta verso la società in cui sono cresciuti, percepita come estranea, e conferisce a questa ribellione una ragione in più per combatterla.

Componente motivazionale

Rappresenta l’aspetto più importante del problema: capire il perché giovani appartenenti alle più svariate classi sociali, nati e cresciuti in città europee, in molti casi con un ottimo livello di educazione siano così sensibili alla fascinazione jihadista.

Cosa unisce l’atto di adesione espresso da un appartenente alla middle class britannica in possesso Phd universitario a quello di un parigino cresciuto nella banlieue?

Rispondere a questa domanda significa affrontare il “core” del problema, e porre le basi per una riposta plausibile al fenomeno.

Prima di tutto occorre sottolineare come, negli anni, il concetto stesso di Jihad abbia subito una profonda trasformazione, che lo ha trasformato da originario dovere individuale in obbligo collettivo per tutti i credenti allorquando la umma (la comunità dei fedeli) ed il suo territorio sono sotto attacco.

E’ stata proprio la teorizzazione di questo aspetto dottrinale, operata da pensatori islamici come Sayyid Qutb e Muhammad abd-al-Salam Faraj, a fornire una straordinaria leva di richiamo per migliaia di aspiranti combattenti provenienti da più parti.

Fu negli anni 80, però, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan che tale approccio trovò la sua definitiva consacrazione grazie all’opera di Sheikh Abdullah Azzam, un intellettuale palestinese che con le sue opere: Defence of the Muslims Lands: The First Obligation after Faith, e Join the Caravan (1987), chiamò a raccolta tutti i fedeli per combattere in Afghanistan al fianco dei mujihideen.

E’ evidente, tornando al presente, come tale richiamo religioso sia ulteriormente corroborato dal sentimento di rigetto al sistema sociale occidentale liberal-capitalista, ed al conseguente abbinamento individuo-consumatore.

Su tale considerazione si innesta un credo religioso assoluto, una ideologia totalizzante, che trasforma la rabbia in motivazione, la protesta in incoraggiamento.

A prevalere, infatti, non è solo il rifiuto di una civiltà della quale non ci si sente figli e verso cui ci si pone con sentimento di superiorità, ma anche la percepita minaccia che tale modello arreca all’impalcatura socio religiosa islamica.

In tali individui il disincanto, che con il relativismo rappresenta un portato della società moderna, cede il passo ad un fanatismo religioso che offre finalmente una ragione per vivere (e per morire), ammantando il loro agire quotidiano di religiosa poesia.

In essi, cioè, per dirla con le parole di Renzo Guolo, prevale più una radicalizzazione islamica che una islamizzazione radicale.

In ultimo, anche la definizione territoriale dello Stato islamico, che ripropone geograficamente il Califfato per la prima volta dal 1914, rinforza la narrativa di una finale, estrema possibilità affidata all’attuale generazione di credenti per realizzare la “umma”.

Trasnazionalità

Come emerge da un recente studio elaborato dal Soufan Group, elaborato per la Conferenza sulla sicurezza di Monaco (2016), la milizia internazionale del Califfato è composta da circa 36.000 combattenti, gran parte dei quali di origine mediorientale (8.240) e del Maghreb (8.000).

Dalle repubbliche ex URSS ne sono affluiti 4700 circa, 875 dai Balcani, poco meno dei 900 giunti dall’Asia meridionale.

Particolarmente preoccupante è il dato sulla provenienza europea, che ammonta a circa 5000 Foreign Fighters (circa il 14% del totale), con la Francia nettamente in testa (1700), seguita da Germania e UK (760 ciascuno), Belgio (470), Austria e Svezia (300), Paesi Bassi (220), Spagna (133) e Danimarca (125).

Dall’Italia, stando all’ultima relazione presentata al Parlamento sulla “Politica dell’Informazione per la Sicurezza”, sarebbero partiti “solamente” 93 combattenti: tutti, tranne pochissime eccezioni, di origine straniera.

I dati appena esposti diventano ancor più significativi se rapportati alla popolazione di fede mussulmana sunnita presente nei singoli Stati europei.

(Dall’Europa sono partite, per unirsi al jihad in Siria e Iraq negli ultimi quattro anni, circa il 20% di tutti combattenti, nonostante la componente di mussulmani sunniti presente nel nostro continente sia di solo l’1,5% su scala mondiale -19.000.000 contro 1.500.000.000 -.)

Infatti, i 300 FF austriaci, se riferiti ai 450.000 sunniti residenti, “pesano” molto di più dei 1700 francesi, espressione di ben 4.710.000 connazionali di pari confessione; lo stesso dicasi per i 300 FF svedesi (in Svezia vivono 430.000 sunniti) preponderanti, in proporzione, ai 1500 del Marocco, la cui popolazione - interamente sunnita - è pari a 31.930.000.

In altre parole, come sottolinea Paolo Quercia, analista del Centro Militare di Studi Strategici (CEMISS), un cittadino austriaco ha oggi dieci volte le probabilità di aderire al Jihad di un suo correligionario residente in Kuwait; così come uno belga ha il quadruplo delle probabilità di uno dell’Arabia Saudita.

Si pensi solo che dalla città svedese di Gothenburg sono partiti più FF che da tutto il Sudan.

Reclutamento

In aggiunta ai canali tradizionali (anni 80 e 90) riconducibili a moschee e charity organisations (NGO’s) islamiche, ciò che contraddistingue l’odierno reclutamento è il massivo ricorso alle piattaforme social (Facebook, Twitter, Istagram, blog, chat) e, in generale, alla Rete con canali video dedicati e magazines on line: uno tra tutti “Inspire”.

Proprio “Inspire generation” è l’accezione comunemente usata per indicare tutti quei militanti raggiunti e convinti tramite i mediaweb, con la cosiddetta tecnica dell’ adbusting, che riproduce, all’interno di siti ideati con le più moderne architetture del web, colori, suoni, ambientazioni tipiche dei videogames più diffusi.

L’utilizzo di post, tweet, messaggi di testo e video è velocissimo e virale.

Marco Strano, psicologo e criminologo della Polizia di Stato, spiega che “i post/contenuti più efficaci per questo scopo sono quelli a forte carica emotiva come i video delle esecuzioni e le immagini di sangue, che vengono diffusi dagli utenti primariamente per esorcizzare l’orrore e per dissipare l’ansia (..) la diffusione di messaggi culturali patogeni è inizialmente indeterminata e con diffusione casuale, ma riesce a trovare numerosi ricettori nelle aree giovanili di soggetti perennemente in attesa”.

La tecnica usata è detta “tecnica del ragno”: i messaggi sono confezionati e messi in rete in attesa che qualcuno ne rimanga impigliato, anche mediante frasi ad effetto che sollecitano sentimenti primari in adolescenti di sesso maschile.

Un aspetto importante del fenomeno è la sua capacità di autogenerarsi in rete con continue condivisioni.

La citata ricerca del Soufan Group ha messo in comparazione, in un particolare giorno (28 maggio 2014), le discussioni sulla guerra in Siria condivise sui social da esperti ed accademici con quelle di gruppi particolarmente vicini ai combattenti stranieri ed ai simpatizzanti del Jihad.

Ciò che è emersa è la netta differenza nel numero di replies a tutto vantaggio del secondo gruppo, che è uso, tra l’altro, commentare estensivamente ogni post prima di rilanciarlo.

(A fronte di 10.700 post, rilanciati 173 volte nella comunità di esperti e studiosi, il gruppo dei simpatizzanti per il Jihad si è distinto per 308 post rilanciati per ben 11.603 volte).

Finanziamento

Negli anni 80 e 90, le risorse finanziarie giungevano da Stati sponsor, primo fra tutti l’Arabia Saudita, vero ispiratore, sul piano “filosofico”, del fondamentalismo wahabita.

Oggi, invece, come si evince da uno studio di Louise Shelley della George Mason University, le attività connesse con il reclutamento e l’addestramento dei combattenti stranieri destinati ad operare in Siraq, Libia ed in Europa, sono finanziate con proventi di attività criminali tradizionali consumate il più delle volte nelle nostre città, essendo l’autofinanziamento del Daesh (contrabbando di petrolio ed opere d’arte, tratta di esseri umani, sequestri di persona e tassazioni varie) esclusivamente destinato per gli stipendi di quei combattenti operativi già impiegabili sul campo, oltre che per il funzionamento della burocrazia "statale".

(Appena giungono in Siria, infatti, i Foreign Fighters devono aspettare almeno 4-5 mesi prima di riscuotere il primo stipendio, il tempo necessario al loro addestramento in situ).

I punti suesposti sono certamente non esaustivi per inquadrare il fenomeno nel suo complesso, ma servono per incanalarne un percorso di graduale comprensione, necessario se si vuole prendere coscienza del nemico che si ha di fronte.

Perché di questo si tratta, di una guerra contro di noi dichiarata e in piena fase condotta.

Che i nostri governanti ne prendano atto.