Elezioni in Turchia: la Sublime Porta al bivio

(di Gino Lanzara)
23/06/18

Grazie al voto parlamentare richiesto dal presidente Erdoğan, il 24 giugno la Turchia sarà chiamata ad una consultazione elettorale anticipata di 18 mesi rispetto alla naturale scadenza della legislatura. Sia la maggioranza al potere dell’Akp che i mezzi d’informazione, del resto uniformati all’univoca linea politica espressa, hanno etichettato queste elezioni come “fondamentali per cambiare l’intero sistema”, ovvero funzionali a completare il controverso processo politico iniziato con il referendum dell’aprile 2017.

Le linee di faglia sono molteplici, e definiscono questo arco temporale come uno dei più turbolenti che abbia vissuto la Repubblica. Ideologicamente il secolarismo kemalista sembra essere sulla strada per perdere il primato politico, laddove il risentimento popolare di stampo islamico – conservatore avverso ai partiti di destra ha alimentato, e continua a farlo specie dalle zone rurali, il partito di governo; secondo questa visione, la nuova Turchia deve risvegliarsi, e soprattutto dare corpo ad un new deal che, respingendo la laicizzazione, priva di spazio politico le opposizioni, viste come incompatibili con l’eredità turco – musulmana e contrarie alla missione storica affidata al presidente. Il referendum che ha visto prevalere di un soffio la leadership erdoganiana, specie se interpretato sotto l’ottica repressiva conseguente al fallito colpo di Stato del 2016, consegna tutti i poteri esecutivi, prima appannaggio del premier, nelle mani del presidente, con una contestuale e significativa riduzione delle prerogative parlamentari.

L’elezione diretta del capo dello Stato è il punto significativo della politica presidenziale, mai così efficace interprete di un nazionalismo populista, neo ottomano, ossimorico se posto in relazione alla concessa pervasività dell’Islam. Più prosaicamente, l’altra linea di faglia è quella economica, dato il deficit del commercio estero e la politica monetaria adottata che, abbassando i tassi di interesse, induce i capitali stranieri alla fuga; una fuga pesante, se rapportata al fatto che le imprese turche si sono indebitate in valuta forte straniera, un’operazione che ha ulteriormente indebolito la lira. Una motivazione politica all’anticipazione delle elezioni, potrebbe dunque risiedere nei rischi che inevitabilmente comporta una crisi economica incombente, accompagnata da inflazione, svalutazione e deficit sul debito estero, e malgrado il governo abbia conclamato una crescita nel 2017 pari al 7,4% annuo, un trionfalismo abbattuto dalla riduzione, da parte di Moody’s, del rating sovrano a livello junk (spazzatura), condivisa dal vice primo ministro Mehmet Simsek, ex analista di Merrill Lynch.

I timori per un possibile riaccendersi della guerra commerciale sino–americana, l’accumulo di deficit, i pericoli connessi ad ulteriori shock esterni, portano la valuta turca a dover sopportare pressioni elevatissime, cui Erdoğan ha risposto minacciando Moody’s e, politicamente, anticipando le consultazioni elettorali per non dover correre il rischio di dover giustificare tra 18 mesi, quale responsabile diretto, una rovinosa recessione. Anche la Banca Centrale Turca, malgrado il tentativo politico di mantenere bassi i tassi di interesse, ha dovuto rialzarli repentinamente per bloccare il rialzo del dollaro nei confronti della valuta locale. I tentativi di distrazione di massa (intervento in Siria ed in MO, creazione di nemici esterni), anche se utili nei confronti di larghe fette di elettorato, non hanno trovato riscontro in campo finanziario: la Turchia sta vivendo una crisi analoga a quella argentina.

Le elezioni, nel disegno di Erdoğan, dovranno permettere di garantire un rafforzamento interno con il contestuale forte contenimento delle opposizioni e della carta stampata, e con una ripresa del nazionalismo che tuttavia, Siria et Iraq docent, non corrisponderà ad una significativa influenza regionale, anche in considerazione dell’accettazione ob torto collo della sopravvivenza del regime siriano di Assad. Dal punto di vista temporale della politica accompagnata dalla religione , non va dimenticata la visita compiuta in Vaticano, che ha puntato a coinvolgere la Santa Sede e l’UE, nella competizione per Gerusalemme, in un asse islamico–cristiano alternativo ad USA, Israele e monarchie del Golfo. Colui che si ritiene come l’attuale capo del mondo islamico, ha d’incanto dimenticato il contenzioso sollevato dalle critiche sul genocidio armeno.

Malgrado i bagni di folla, difficoltà e sfidanti comunque non mancano ed, in prospettiva, dovrebbero interessare anche il mondo occidentale, date le varie estrazioni ideologiche ed i possibili consensi. Soprattutto Meral Akşener, una nazionalista di destra, ma di una destra diversa da quella del presidente, un avversario preparato ed ostico, e proveniente da un’area politica che, almeno in Italia, potrebbe rievocare eventi controversi: l’area dei Lupi Grigi. Gli intendimenti politici di Akşener, appellata come la Lupa Asena, si sono sviluppati in funzione anti Erdoğan, e hanno puntato al ristabilimento della libertà d’espressione, all’abolizione delle novità introdotte dalla Consultazione referendaria, alla lotta al terrorismo ed all’immigrazione, ed a concedere maggiori diritti alle donne. Per ora, per lei come per gli altri leaders all’opposizione, la possibilità di vincere le elezioni è poco significativa; tuttavia potrebbe dar corpo ad un’ipotesi da non sottovalutare, ovvero quella di giungere al ballottaggio, oppure a far arrivare al vertice un presidente sì vincitore, ma privo della necessaria maggioranza utile a governare.

I rischi per il presidente ci sono, eccome, specie se l’opposizione riuscirà a rimanere unita e latrice di un messaggio politico kemalista attagliato alla realtà contingente. Non da ultima rimane la questione curda, che vede uno dei suoi leader, Selahattin Demirtas recluso da mesi ed ancora in attesa di giudizio. Conclusioni. La Turchia, respinta dall’UE, sta cercando di interpretare un nuovo ruolo regionale che, tuttavia, la sta portando su posizioni sempre più lontane dall’Alleanza Atlantica; possibile oggetto di una crisi economica senza precedenti, per mano di un presidente decisamente autoritario, sta accentrando i suoi poteri istituzionali nelle mani di un solo soggetto politico che si è fatto interprete di una difficile assimilazione tra nazionalismo kemalista ed istanze politico–islamiste.

Il populismo imperante nello stato anatolico sicuramente assumerà un ruolo determinante nell’elezione di Erdogan, ma non potrà eludere quella che è una situazione contingente e critica: una spaccatura della società che ha già visto i principali centri urbani e culturali decisamente avversi al referendum costituzionale già proposto. L’instabilità parlamentare che potrebbe delinearsi in mancanza di una maggioranza ben definita potrebbe condurre Erdogan, malgrado tutto, a perdere la sua personale competizione con Ataturk.

(foto: presidenza della Repubblica di Turchia)