Autunni Arabi

(di Gino Lanzara)
12/10/19

In M.O. i sommovimenti sociali amano seguire il ritmo stagionale: dopo le primavere, una nuova brezza sta scuotendo i Paesi arabi; passati il 2011 e le ipocrisie della diplomazia USA, tanto pronta all’idealità quanto all’opportunistico disimpegno a fronte di risultati elettorali sgraditi, sono rimasti i problemi connessi alle difficili condizioni sociali ed economiche.

Al netto di tribalismo e religione, Egitto, Iraq, Siria, Libano, Giordania, sono stati scossi dalle proteste di migliaia di giovani e di ex miliziani anti Isis che, cercando di calcare nuovamente le scene del 2011, hanno trovato di fronte a loro forze governative determinate a stroncare sul nascere ogni possibile atto destabilizzante, anche grazie al controllo dei media.

La repressione non ha però potuto cancellare la carenza di servizi basilari, di istruzione, di assistenza medica, di reali prospettive future per i giovani più acculturati, della percezione della necessità di sentirsi elementi rappresentativi di una vita politica partecipata e non ristretta alle usuali oligarchie. Malcontento diffuso, dunque, cui sono corrisposte diverse forme di reazione da parte del potere costituito; mentre in Egitto il presidente Al Sisi è riuscito a spostare l’attenzione sui Fratelli Musulmani impedendo la presa di Piazza Tahrir, in Iraq i giovani sono scesi in piazza non solo a Baghdad, ma anche a Bassora, Nassirya e Najaf.

I disordini, in genere, hanno puntato ad ottenere vantaggi politici ed economici, ma in Iraq si sono fatti anche interpreti di una lotta sia locale che nazionale, animata sia dalle fazioni in conflitto con l’Isis sia dalle componenti politiche più affini e vicine all’Iran. Sorge dunque immediato chiedersi chi nutra un effettivo interesse a fomentare una situazione potenzialmente più esplosiva di quella del 2011, ora ulteriormente alimentata dall’aggressione turca alle posizioni Curde in territorio siriano, in grado di aprire definitivamente il Vaso di Pandora mediorientale.

L’Iraq meridionale, pur ricco di petrolio, non ha facile accesso né all’acqua potabile né all’elettricità, fortemente razionata, ed è oggetto di politiche centrali che alternano repressioni e concessioni che pencolano sul labilissimo confine che separa l’intervento sociale dal clientelismo. Il risultato più evidente è stato quello di aver creato delle élite puntate unicamente a sfruttare i canali privilegiati che le collegano alle autorità centrali, e che impediscono di creare un efficace complesso politico ed economico. La natura approssimativa di questo tipo di politica, emarginando ampi strati sociali, non può che dare una visione parziale e di breve respiro, e soprattutto non può che condurre ad un peggioramento del quadro generale, per il quale non sarà più sufficiente né indicare guerra, etnie (arabi, turcomanni e curdi), e confessioni religiose (sciiti e sunniti) quali uniche cause scatenanti, né dare sfogo al risentimento contro i soliti noti: USA ed Israele.

L’Iraq vive ancora una volta una stagione politica che non offre stabilità né in parlamento, né nel controllo delle milizie anti Isis. Il presidente Salih, che pure ha contribuito a ravvivare le proteste con l’allontanamento del tenente generale Abdulwahab al-Saadi, protagonista del conflitto contro l’Isis, conscio della situazione e con l’appoggio del segretario di Stato USA Pompeo, sta cercando di arginare le contestazioni, promettendo sia impossibili maggiori aperture e partecipazioni politiche e sociali, sia assicurando la punizione dei responsabili delle violenze di piazza; affermazioni che hanno il sentore di un tentativo disperato e populista di riprendere il controllo di una situazione quanto mai complessa, compromessa dalla corruzione, dagli abusi di potere e dalla costante presenza di organizzazioni religiose e paramilitari ai vertici del sistema statale.

Pane e acqua

Il teatro del Siraq ha assistito alla frammentazione di Daesh, tanto più illusoria quanto più è manifesto che un cospicuo numero di jihadisti si sta riorganizzando in territorio iraqeno, senza contare i nuclei attivi in un’ampia fascia di territorio che spazia dall’Afghanistan al Sahel. Del resto la stabilità economica del Califfato assicura progetti a lungo termine, capaci di continuare a rendere l’Anbar una zona a rischio integralista. Daesh, tornato ad una dimensione non statuale, se da un lato ha perso porzioni di territorio, si è però liberato della loro gestione, potendosi così dedicare, con il concorso di mafie e crimine organizzato, al contrabbando di prodotti petroliferi, armi, stupefacenti, sigarette e reperti archeologici. In una zona così instabile come quella iraqena, non stupisce dunque l’abilità jihadista nel reperire fondi in modo trasversale, con un’eccezionale capacità di adattamento alle situazioni contingenti.

Con la fine dell’entità parastatuale, Daesh ha adottato una strategia ibrida a mezza strada tra il controllo e la predazione che, sostenuta da un efficace battage lanciato in ambito locale, si è rivolta verso le attività agricole, specialmente nella fertile area di Ninive; il Califfato ha di fatto sempre puntato ad essere identificato quale garante della produzione e della distribuzione delle derrate alimentari, individuando così il miglior sistema possibile per accedere completamente al territorio; tutto ciò anche alla luce del concorrenziale SDP statale (Sistema di Distribuzione Pubblico), che è volto ad assicurare gli alimenti a prescindere dal reddito. I conflitti susseguitisi, con l’abbandono delle aree rurali, hanno dunque fortemente colpito un settore economico vitale, il cui indebolimento ha inasprito i contrasti con gli esecutivi legittimi, e ha rafforzato quelli non statuali che, in cambio, hanno richiesto un sostegno politico capace di promettere una ridistribuzione selettiva dei beni.

La gestione strategica delle risorse è dunque divenuta la leva con cui aumentare il distacco sia dallo Stato sia dai gruppi concorrenti: un sistema efficace se si intendono creare divisioni, e che non vede fine nemmeno con l’apparente disfacimento di Daesh che, anzi, mira a vanificare e rallentare le azioni volte al rilancio dell’economia nazionale, proponendosi ancora quale unico interlocutore locale. Inevitabile presumere che, in caso di raccolti insufficienti e di mancati sostegni da parte di un governo già largamente delegittimato, l’unica alternativa valida sarà ancora una volta quella jihadista.

Ma non è tutto; al di là dell’incombente fenomeno Daesh, unitamente al malessere sociale, c’è da sottolineare che la crisi idrica iraqena, specialmente nelle zone meridionali del Paese, ha assunto cronicità e dimensioni tali da generare sia mal gestite (quando perfino negate) emergenze sanitarie, acuite dalla mancanza dei servizi essenziali, sia profonde crisi occupazionali; l’esiguità d’acqua penalizza infatti le attività, rurali e di pesca che pure, fino a 30 anni fa, garantivano profitti.

Lo Shatt-al-Arab, la principale risorsa idrica del sud Iraq che scorre nella zona di Bassora, è fortemente contaminato, e risente della riduzione dei livelli di Tigri ed Eufrate controllati dalla Turchia che, come l’Iran, ha realizzato dighe tali da limitare la portata del fiume. Tanto per non farsi mancare nulla, l’evaporazione dovuta alla siccità ha causato l’intrusione salina delle acque del Golfo Persico, fenomeno che ha ulteriormente minato le possibilità di depurazione da parte di impianti lasciati da anni in abbandono, e che non possono nemmeno impiegare il cloro, la cui vendita è stata ridotta per impedirne l’uso da parte dei combattenti jihadisti.

Conseguenze: riduzione delle attività agricole, aumento delle importazioni di derrate e prodotti agricoli, massicce migrazioni dalla zona di Bassora, ulteriore delegittimazione di un governo (talvolta volutamente) incapace di controllare il suo stesso territorio.

Le aree al momento non interessate ai disordini, sono quelle originariamente oggetto della conquista islamista, mentre quelle che hanno alimentato le fila delle formazioni anti Daesh finanziate dall’Iran sono in rivolta; queste zone hanno infatti risentito degli eventi bellici solo indirettamente, cosa che ha permesso di creare un effimero miglioramento economico, dovuto alle paghe dei miliziani ed alle attività degli imprenditori di guerra, ora interrotte.

Il nord Curdo vive la stessa crisi economica del sud, con una peculiare situazione politica interna che tuttavia ha impedito che si creasse un movimento di massa in grado di volgersi contro il governo centrale.

Vicini scomodi

Israele sta ampliando i suoi sforzi contro i tentativi iraniani di consolidamento nella regione, senza trascurare ipotesi (solo?) di attacchi alle infrastrutture iraqene collegate all'Iran; una valutazione complessiva dovrebbe indurre a considerare le possibili conseguenze delle attività belliche, alla luce dei ripiegamenti americani da Iraq e Siria, cosa che lascerebbe Gerusalemme da sola nell’opera di contenimento della proiezione di potenza iraniana.

Gli attacchi di Teheran con droni armati contro il nord di Israele dimostrano un cambiamento del tipo di risposta alle operazioni israeliane. Gerusalemme dovrà dunque ora valutare se gli attacchi in Iraq sono davvero funzionali a ridimensionare le capacità militari iraniane, specialmente per quanto concerne i missili a guida di precisione di Hezbollah in Libano.

Lo sviluppo dei sistemi d'arma, le opportunità operative ed il superamento della soglia critica da parte israeliana, probabilmente costringeranno l'Iran a reagire diversamente da come fatto finora, senza comunque dimenticare l’installazione di missili balistici puntati dall’Iraq verso Israele, una scelta determinata dagli attacchi israeliani contro le infrastrutture militari iraniane in Siria.

Insomma, sempre per non farsi mancare nulla, l’Iraq sconvolto dalle proteste interne deve anche far fronte alla situazione determinata dalla competizione tra Iran ed Israele; non da ultimo, il segretario di Stato USA nel maggio di quest’anno ha mostrato al premier iraqeno Mahdi le fotografie satellitari ed aeree delle strutture militari iraniane in territorio iraqeno, accompagnate dal minaccioso consiglio di un rapido smantellamento; la vicenda ha condotto ad un’ulteriore desovranizzazione di un governo ritenuto non solo non all’oscuro, ma colpevolmente riluttante nell’impedire azioni belliche straniere sul proprio territorio.

Conclusioni?

Il caos iraqeno ha visto il coinvolgimento religioso e tribale, ma sembra ormai evidente che non ci si possa fermare a questi aspetti, dato che il quadro generale va necessariamente interpretato anche alla luce degli eventi più recenti, e specialmente in funzione dell’alternativa revanchista che l’insorgenza jihadista offre alle masse. Le conseguenze delle ambiguità governative, unite ad un diffuso senso di rassegnazione e disperazione popolari, dovrebbero ora indurre ad un difficile cambio di rotta scevro dagli ultimi inutili populismi emersi.

Foto: BBC / YouTube / CNN