Storici, analisti, giornalisti e cantastorie

(di Paolo Palumbo)
04/07/18

Il presente non costituisce mai il nostro fine.
Passato e presente sono mezzi, solo l'avvenire è il nostro fine.
Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre a essere felici è inevitabile che non lo siamo mai. (B. Pascal)

Prima dell’11 settembre 2001 gli studi in materia di “terrorismo” restavano confinati tra gli addetti ai lavori e ad uno sparuto gruppo di accademici che indagavano perlopiù su moventi e connessioni con l’ideologia delle superpotenze e la Guerra Fredda. Già negli anni Settanta operavano nel settore pochi istituti universitari o para universitari sia al servizio di qualche governo, sia indipendenti, i quali affrontavano la tematica “political violence” in maniera professionale, ciò nondimeno il risultato delle ricerche era sempre indirizzato a chi doveva occuparsene e raramente diventava oggetto di pubblico dominio. L’indagine sull’origine del dissenso iniziatore del terrorismo abbracciava la storia politica, quella militare, sociale e finanche la filosofia, ma non ascese mai a insegnamento tout court. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle ci fu un cambio di rotta significativo e abbiamo assistito ad una fioritura di istituti, enti, gruppi di studio che hanno posto come soggetto primario delle loro ricerche il terrorismo islamista e le questioni mediorientali. Di conseguenza vi è stata una sovrapproduzione della cosiddetta “letteratura grigia”, ovvero materiale edito su internet, consultabile e scaricabile on line. Da questo moltiplicarsi di studi e studiosi, più o meno seri, sono nate nuove figure professionali, una volta rintracciabili solo nelle spy stories alla “Tre giorni del condor”. Ad esempio, proprio riferendosi al film citato, ricordiamo la professione di un giovane Robert Redford (foto apertura) che rivestiva i panni di un ricercatore OSINT (Open Source Intelligence) invischiato in uno dei soliti complotti orditi dalla CIA. Alla luce di quanto prodotto dalla storiografia sul terrorismo (raddoppiata in questi ultimi anni) questo breve scritto vuole provare a differenziare alcune professionalità e delimitarne o allargarne i loro campi d’indagine senza dimenticare la sezione più numerosa, quella dei cantastorie che affollano le pagine web e i giornali.

Il mestiere del passato

La professione dello storico trova tra le pagine di Apologia del mestiere di storico di Marc Bloch il punto di partenza intellettuale per il delicato lavoro di indagare il nostro passato. Lo studioso di Lione, che insieme a Lucien Febvre fondò la rivista storica Les Annales, asseriva come la storia fosse la “scienza degli uomini nel tempo” e che uno storico dovesse basare il racconto dei fatti su un’attenta analisi delle fonti, sia esse orali, sia cartacee. Bloch non disponeva dei mezzi odierni e la sua formazione avvenne sui banchi polverosi degli archivi: un luogo frequentato ancora oggi esclusivamente da chi voglia “farsi le ossa” tra l’affascinante spoglio di documenti originali. La metodologia impressa da Les Annales plasmò così generazioni di eruditi, educandoli ad un certo rigore nella consultazione delle fonti, ma soprattutto ad una impegnativa “presa di distanza” dal soggetto studiato per esporre una versione dei fatti scevra da ogni opinione: “lo storico deve comprendere, non giudicare”. A questo punto ci rendiamo conto come rispetto la materia “terrorismo” l’approccio esplorativo tradizionale sia circoscritto a pochi studiosi dacché la stessa “Storia del terrorismo” si presta poco all’edizione di antologie o compendi vecchio stile. Se si vuole tracciare a grandi linee una cronologia narrativa sul terrorismo dobbiamo guardare al pregevole lavoro di Alex P. Schmid e Albert J. Jongman, Political Terrorism, edito nel 1988. Scorrendo l’indice ci imbattiamo proprio nel capitolo consacrato all’analisi critica dei vari testi su “terrore e terroristi” e quanto affermato dai due teorici può essere usato come una raffronto evoluto alla metodologia suggerita da Bloch. Non a caso Alex Schimd si affida ad un approccio accademico multidisciplinare usando, inoltre, toni critici rispetto una produzione letteraria giovane, ampia, ma effettivamente con pochi riferimenti validi. Chi scrive di violenza politica e terrorismo – afferma Schimd – è generalmente privo di esperienza poiché esso ha un orientamento accademico, senza alcun raffronto diretto; ed è proprio qui – secondo lui – l’essenza del lavoro dello storico che non è quello di sconfiggere il terrorismo, bensì capirne i moventi, le origini e i possibili sviluppi. Le organizzazioni terroristiche devono essere studiate all’interno del loro contesto politico, costruendo un parallelo con chi li combatte. Qui però nasce il vero problema. Se la storia passata dispone di una pletora di fonti interminabili, gli avvenimenti più recenti legati al terrorismo politico sono catalogati su documentazione spesso indisponibile (perché secretata per ovvie ragioni di sicurezza) o rimaneggiata dal governo, dalle agenzie di governo e dai cosiddetti think tanks.

L’analista della porta accanto

Il mestiere di storico è imprescindibile da un percorso accademico che lascia poco spazio all’improvvisazione. Certo, esistono storici di vario genere il cui criterio di analisi delle fonti è discutibile, ciò nondimeno chi svolge tale mestiere en amateur mostra dei limiti che fanno la differenza tra uno storico affidabile o un narratore di fiabe. Lo stesso non si può dire di una figura professionale emersa prepotentemente proprio grazie al terrorismo: l’analista. Vedremo, infatti, come il titolo di analista in materia di terrorismo sia piuttosto in voga e di conseguenza soggetto a molti abusi da parte di millantatori i quali amano spacciarsi per tali.

Prima di addentrarci su quali siano i compiti di un analista previsionale o strategico, occorre fissare alcuni punti chiave per una opportuna distinzione dallo storico. Sono due lavori diversi , ma ciò non toglie che uno storico possa fare l’analista e viceversa. Se per lo storico però le unità temporali sulle quali indaga sono il passato, il presente e il futuro, per l’analista esse appaiono più ristrette e immediate, vale a dire ieri, oggi e domani. La cosa più importante che distingue un analista da uno storico, ma soprattutto un analista serio da un cantastorie è il percorso che questi ha fatto per acquisire l’informazione poiché la strada sta all’analista come l’archivio sta allo storico. Oggi, purtroppo, assistiamo a diverse interviste o leggiamo articoli i cui autori si qualificano come analisti senza mai aver messo piede fuori dalle mura dell’ufficio. Il compito principale dell’analista è quello di immagazzinare dati e successivamente fornire al suo cliente delle opzioni. “L’analista previsionale o strategico – spiega Andrea Margelletti (foto) presidente del CeSI (Centro Studi Internazionali) – presenta una serie di possibilità a chi debba prendere dei provvedimenti su una determinata questione, ma non compie mai la scelta finale poiché quest’ultima è esclusivamente appannaggio della politica”. Dietro le quinte del lavoro di un analista ci sono le cosiddette agenzie think tank, come ad esempio la RAND Corporation: un colosso con sede in America e Inghilterra che fornisce e scompone informazioni per committenti governativi. Sebbene gli esecutori materiali degli studi siano all’altezza della loro fama, l’incognita è semmai quanto questi “fabbricatori di opinioni” siano davvero attendibili; la RAND, ad esempio, mette a disposizione i suoi analisti per un cliente come il governo americano e questo, forse, potrebbe in qualche modo pregiudicarne l’obiettività, o quanto meno dare un indirizzo parziale all’indagine. D’altronde lo stesso tallone d’Achille dell’imparzialità lo riscontriamo anche nello storico quando quest’ultimo leghi il suo nome a dei poteri forti. Al di là della possibile alterazione delle fonti, è inconfutabile che sia storici, sia analisti “seri” condividano una visione ad ampio spettro degli avvenimenti e che entrambi riconoscano l’importanza delle fonti come principio guida dei loro studi.

Terra di nessuno: il giornalismo

I terroristi agiscono come attori su un palcoscenico: seguire il copione è importante, ma quello che sancisce il vero successo è l’audience che riescono ad ottenere dallo spettacolo. Diversi attentati falliti si sono trasformati in vittorie inattese per il terrorismo poiché hanno ottenuto una copertura pressoché totale da parte dei media. L’interessamento mediatico riguardava non solo l’avvenimento in senso stretto, ma anche un morboso allargamento ad altri ambiti della vita comune delle vittime. Spieghiamo meglio. Negli ultimi anni il Vecchio Continente è stato oggetto di una serie preoccupante di attentati di matrice islamista che hanno provocato paura e sconforto tra la popolazione colpita. Di fronte a queste vicende abbiamo assodato come il giornalismo abbia più volte gettato benzina sul fuoco attestando cosa non si debba fare in questi casi: massimo dispiegamento di telecamere, messa in onda in loop delle immagini dello scenario del post attentato, interviste alle vittime e ai loro parenti ed infine l’invasione dei palinsesti con trasmissioni ad hoc incentrate sulla tragedia dei sopravvissuti. Un susseguirsi di immagini violente, trasmesse in nome del sacro dogma del “tutti abbiamo diritto ad essere informati”; proprio nel caso del terrorismo però questo principio può diventare un’arma a doppio taglio o quantomeno dovrebbe essere soggetto a valutazioni più assennate. In particolare il giornalista tende a costruire una sorta di transfer tra la vittima e il sopravvissuto facendo passare quest’ultimo come un possibile futuro bersaglio. Come superare dunque questa impasse? È corretto imbavagliare i mass media rispetto un avvenimento come quello di Berlino o Bruxelles? In Israele, ad esempio, i rapporti tra network e terrorismo sono stati al centro di un lungo dibattito tra le principali testate editoriali e il governo. Può dunque un governo intervenire sul principio fondamentale della libertà di stampa senza apparire come un censore di regime? La risposta data dall’International Institute for Counterterrorism di Herzlya è stata propositiva e possibilista, nel senso che una opportuna revisione di quanto messo in onda dai media su determinati fatti delittuosi legati al terrorismo è la conditio sine qua non per scongiurare il panico generale facendo così il gioco dei terroristi.

Sui giornalisti pesano, infatti, delle responsabilità più gravose rispetto uno storico o un analista poiché il loro messaggio arriva ad un pubblico eterogeneo e non specialista. A questo si aggiunga poi il sempre più preoccupante fiorire di “fake news” oltre all’autentica spazzatura prodotta dai social media, corruttori del principio stesso di informazione corretta.

Il demone che ossessiona un giornalista prende il nome di “notizia” e questa deve essere diffusa prima delle testate concorrenti, a discapito della sua esattezza: nel lasso temporale tra lo scoop e la sua diffusione si corre, infatti, il rischio di rimuovere ogni filtro utile a riconoscere il vero dal falso. Il clima di tensione generato da un attacco terroristico, ad esempio, provoca una spasmodica ricerca del colpevole arrivando persino a conclusioni errate e sommarie. La cronaca isterica “ora per ora” di quanto accade sullo scenario di un attentato suicida o di un commando islamista sciorina una serie di ipotesi non verificate sul numero delle vittime e – cosa più pericolosa – sul numero degli attentatori, intralciando il lavoro investigativo delle forze dell’ordine.

Da quanto detto finora sembrerebbe che i giornalisti più che fare informazione sovente creino disinformazione; ricordiamo però che inclusi nella categoria esistono nobili esempi che per la corretta narrazione dei fatti hanno perso la vita addentrandosi nei campi di battaglia o finendo ostaggio di qualche gruppo di tagliagole. Nel giornalismo raccontare la verità ha sempre un prezzo molto alto e richiede una professionalità anche umana nell’affrontare certi argomenti dall’altro canto la spettacolarizzazione mediatica degli eventi è del tutto gratuita, pericolosa e di pessimo gusto.

Novellieri social

Iniziamo subito col dire che i cantastorie, menestrelli e trovatori di corte avevano una loro precisa dignità e una collocazione storica di grande rilievo. Il compito del menestrello era, infatti, quello di affascinare gli astanti con racconti fantastici i quali però traevano spunto dalla vita quotidiana. Non a caso il sovrano ascoltava con attenzione quanto declamato anche perché era un modo per tastare l’umore del popolo e conoscere quanto accadeva fuori dalle mura del palazzo.

Oggi purtroppo il cantastorie ha oltrepassato i confini fiabeschi e narrativi per entrare nel merito della cronaca quotidiana, ma soprattutto per imporre la sua vivace “interpretazione dei fatti” sui social forum. Il cantore contemporaneo ha sostituito la cetra con la tastiera di un computer che non produce note auliche, piuttosto un noioso ticchettio dal quale escono frasi senza senso animate da odio, una profonda ignoranza e incompetenza. Il fatto più spiacevole però è che questi signori vengano ascoltati e il loro parere avvalorato da una vulgata popolare sempre più smaniosa di dare un’opinione su tutto, smentendo o avvalorando tesi sulle quali non sanno un bel niente.

Facebook, più di ogni altro, è l’arena nella quale si confrontano “esperti” di terrorismo, immigrazione e forze speciali bramosi di far sapere agli altri quanto siano bravi nell’essere mendaci e pressapochisti. Storici e analisti sono al riparto dal loro influsso, ciò nondimeno il giornalista cede molto volentieri all’ascendente diabolico dei social solo perché essi rappresentano ciò che vuol sentire la gente. È un circolo vizioso sul quale fa perno anche la politica, ormai avvezza all’impiego dei post per veicolare pareri o risultati. Bene inteso, lungi dal demonizzare l’uso di internet, si vuole solamente suscitare qualche dubbio sulla reale funzione dei social quali recipienti di notizie confinandone l’uso – più consono – a mero strumento di pettegolezzi.

(foto: web /CESI / U.S. DoD)