Rabbia

(di Walter Raleigh)
26/07/19

La notizia in sé è scarna: carabiniere ucciso in servizio. È il primo? No, assolutamente, è l’ultimo di una lunga schiera di SOLDATI per i quali la guerra è perenne, è quotidiana, una guerra così sporca e vigliacca che le ferite peggiori te le apre il fuoco amico, ammesso che, ora come ora, le spalle di un uomo in divisa possano dirsi al sicuro.

Saremo impolitici, anacronistici, cattivisti, se ci passate il termine, privi di un ecumenismo d’accatto che, accompagnato dall’aroma di sacrestia di un incenso che ammannisce cardinalizia impunità, pone il popolo in divisa tra i negletti, tra coloro che non possono che essere biasimati ed additati perché rappresentanti di uno Stato che spesso, mentre li lascia in balia di coltellate e sanpietrini, richiede loro un rispetto delle regole che è sì doveroso, non c’è dubbio, ma che è altrettanto di frequente grondante del loro sangue.

Non stiamo parlando di parlamentari in escursione marittima, espressione di un dissenso che, nelle sue forme, li porta ad essere addirittura in contrapposizione a quello stesso Stato che li retribuisce e li tutela, no, parliamo di uomini e donne che hanno fatto di un’idea la loro ragione di vita, un’idea che porta, addirittura, a sognare anche il loro matrimonio indossando una divisa che in ogni punto della sua trama è intessuta di nottate, di guardie, di sacrifici, di rabbia, di lontananza, di momenti vissuti con il cuore in gola, in preda ad angosce e paure per un figlio che in quel momento non stringere.

Per il militare non c’è perdono; c’è chi sbaglia, è vero, ma per una distorta e faziosa regola transitiva e generalista, tutti vengono automaticamente bollati con un immeritato marchio di infamia, una stigmata che, per chiunque altro, e forse a anche a ragione, porterebbe a giustificare un volgere la schiena, un far finta di nulla.

E invece no, il popolo in divisa incassa la testa tra le spalle, piange in silenzio, che sia sotto un sole africano o al freddo polare, sulle strade, in mare, o in paesi dove è stato comandato per una missione che non vale di certo il prezzo di una bara; il popolo in divisa continua a lavorare, continua a difendere la sua dignità e quella di un intero Paese che nemmeno se ne rende conto, impegnato com’è a cercare l’ultimo cellulare, ad andare in vacanza nella località più alla moda, ad ambire alla mini macchina da città: il sogno di una vita!

Viviamo in un Paese affetto da forme disforiche e bipolari, siamo un caso clinico di schizofrenia politica, dove chi detiene il potere, cambiando giacchetta, protesta contro sé stesso, contro l’idea di uno Stato che, per effetto di elezioni e nomine istituzionali, dovrebbe invece proteggere; viviamo in un Paese che esulta per la manovra criminale di una sedicente pacifista che non esita a schiacciare una motovedetta della Guardia di Finanza mettendo in pericolo i membri dell’equipaggio, e per questo, di fatto, viene onorata con premi, collette, cittadinanze, mentre a bordo uomini politici italiani sono colti da euforia incolpando addirittura gli uomini in divisa di operazioni spericolate.

Mentre vengono in mente le parole di Pasolini che pure difese, checché se ne dica, i poliziotti impegnati negli scontri a Valle Giulia, non si riesce a cancellare quell’atroce senso di buffonesco che scandisce ormai da troppo tempo la vita quotidiana di questo Stato. Da un lato ricchi borghesi in maglietta e camicia rosse firmate, con orologi al polso che valgono anni di stipendi di un carabiniere, e dall’altro figli con le stellette di un popolo che ne è privo e che le disprezza, e che non merita tutti questi sacrifici.

Non esiste più quello che veniva definito il comune senso del pudore, non esiste più il senso della misura, non esiste più il senso del ridicolo, nemmeno quello che avrebbe dovuto aiutare i sommi decisori a valutare con serenità il comportamento di un ragazzo che, nel chiuso del suo alloggio, ha affisso la bandiera di una Marina e di uno Stato ormai passati alla storia.

La morte porta con sé una dimensione tragica a cui nessuno è mai pronto, ed accomuna chiunque nella sua drammaticità, tanto più quando la fine arriva iniqua ed inaspettata.

Ma oggi, chi si sta davvero stracciando le vesti per questa tragedia? Chi ha aperto sottoscrizioni di fondi per una giovane vedova? Quale istituzione sta davvero manifestando la sua idea, per poi FARE davvero qualcosa? Nessuno.

I notiziari riportano stancamente di notizie sportive, di sbarchi e naufragi, ma di gente con le stellette, siamo onesti, non interessa nulla a nessuno, salvo poi piangere e balbettare quando, sommersi da fango, detriti e neve, non arriva la divisa di turno a trarre in salvo chiunque ci sia sotto.

Faccio mie le parole di Giovanni Guareschi: E quando un soldato italiano muore, il suo corpo rimane aggrappato alla terra, ma le stelle della sua giubba si staccano e salgono in cielo ad aumentare di due piccole gemme il firmamento. Per questo, forse, il nostro cielo è il più stellato del mondo. "Le stellette che noi portiamo" non rappresentano soltanto "la disciplina di noi soldà", ma rappresentano le sofferenze e i dolori miei, di mio padre, dei miei figli e dei miei fratelli. Per questo le amo come parte di me stesso, e con esse voglio ritornare alla mia terra e al mio cielo.

Voglio pensare che queste altre due stellette siano in cielo con le altre migliaia, che possano risplendere per sempre, ma non riesco a togliermi di dosso quel sentore di sporcizia così solo italiana e che mi costringe a credere che questo Paese non meriti tanto.

Foto: Arma dei Carabinieri / web / Facebook