Qualche sommessa proposta per la Difesa che verrà

(di Stefano Panato)
07/11/18

In questo frangente storico non sembra che la Difesa costituisca una priorità nel nostro Paese. È vero che si parla insistentemente di concetti quali il “duplice uso” e la “resilienza”, che potrebbero conferire maggiore efficacia ed efficienza alla spesa militare, ma è altrettanto vero che si profilano ulteriori e consistenti riduzioni ad un bilancio della difesa già modesto di per sé.

Che fare allora? Confidare nel potere salvifico di un ulteriore modello di difesa, che rischia come sempre di riproporre l’esistente su scala più ridotta, oppure tentare di cambiare il paradigma secondo cui fino ad ora è stata concepita la nostra Difesa?

L’esperienza dei tanti propositi riformatori andati poi frustrati e il contesto geopolitico attuale, così profondamente mutato rispetto a quello di pochi anni fa, suggeriscono un approccio più coraggioso e attento agli interessi del nostro Paese, ad iniziare dal principio informatore con cui da sempre è stata organizzata ed equipaggiata la nostra Difesa che è sintetizzabile nel “poco ma di tutto”.

In base a questo principio negli anni il nostro Paese si è dotato di capacità operative, più o meno significative, in tutto il vasto spettro dell’universo militare. Fa eccezione solamente il nucleare. Per completezza va considerato che negli anni 50 e 60 si è spinto fortemente per avere una capacità nazionale autonoma anche in questo settore. Il progetto però ha dovuto essere accantonato a seguito dell’adesione dell’Italia al Trattato di non Proliferazione Nucleare. Il fatto di aver potuto mantenere un piede nel nucleare, seppure sotto l’egida della NATO, in alcuni ambienti nazionali è percepito ancora in termini risarcitori e di status per una capacità che avremo potuto avere ma a cui abbiamo rinunciato volontariamente.

Ad una analisi preliminare il principio di una Difesa organizzata con di tutto un po’ può apparire ispirato dal buon senso e da giusta cautela riguardo l’imprevedibilità del futuro. A questo va aggiunta la considerazione non secondaria che la disponibilità di uno strumento militare completo in tutte le sue componenti, e quindi prestigioso ad occhi esterni, incontra le ambizioni delle elite nazionali, non solo quelle militari.

Ad un esame un po’ più ponderato il principio del “poco ma di tutto” mostra invece tutti i suoi limiti, ora più che mai. Il principale è quello delle risorse, dati i nostri bilanci della Difesa cronicamente stentati e le magre prospettive future di cui si è detto sopra. Di fatto, il “poco ma di tutto” ha finito quasi sempre per tradursi in “troppo poco” per essere significativo e credibile come reale capacità.

Inoltre il “poco ma di tutto”, e il suo prefigurare una improbabile autosufficienza militare nazionale, cozza con la realtà politica che vede il nostro Paese saldamente incardinato nell’Alleanza Atlantica e nella Unione europea. Quel che è più è che in entrambe le organizzazioni internazionali l’Italia da tempo è in prima fila per chiedere una sempre più stretta integrazione politica e la messa in comune di capacità militari.

Evocare infine una ipotetica autosufficienza militare, non solo per l’Italia ma anche per i Paesi dello spazio politico dell’Unione, è antistorico. Di fatto rimanda ad una concezione obsoleta di relazioni interstatuali fatta di: difese tous azimut, di alleanze variabili secondo convenienza, di velleitarie affermazioni di sovranità nazionale che appartengono ad una storia passata e purtroppo ancora non del tutto metabolizzata. Le difficoltà ricorrenti del progetto politico di integrazione europea ne sono testimonianza. Per rimanere nel campo militare incrostazioni di questo passato sono rinvenibili, ad esempio, nella dislocazione dei Reparti che riflette contrapposizioni storiche. Questo vale un po’ per tutti i Paesi dell’Unione, e per rimanere al nostro Paese si pensi alla Base aerea di Cameri rimasta operativa fino a poco tempo fa per difenderci da non si sa bene chi: dalla Francia, dalla Svizzera...?

Da quanto detto emerge quindi con chiarezza che è primario interesse del nostro Paese ripensare a fondo la storica impostazione strategica della Difesa, abbandonando progressivamente il paradigma del “poco ma di tutto” per quello del “quanto effettivamente serve”.

Qualcuno potrebbe eccepire sui rischi che potrebbero derivare da uno strumento militare squilibrato e quindi dipendente da capacità possedute da altri Paesi alleati. Sono giuste preoccupazioni che vanno però valutate in un quadro d’insieme e anche relativizzate. Innanzitutto occorre considerare che, ancorché minimo, un certo grado di autosufficienza verrebbe comunque mantenuto per poter far fronte a esigenze di carattere nazionale di cui le alleanze, per varie ragioni, non se ne farebbero carico. Inoltre se è vero che si sarebbe dipendenti da altri per talune capacità militari è vero anche l’opposto. La mutua dipendenza militare fra i Paesi dello spazio politico dell’Europa, oltre ad evitare ridondanze, sarebbe quindi fattore di ulteriore coesione fra gli stessi. Inoltre garantirebbe da improbabili ma non impossibili, come la storia insegna, iniziative unilaterali. In definitiva la sempre più stretta integrazione politica europea invocata soprattutto dal nostro Paese, e la messa in comune di capacità di difesa, oltre che rispondere ai nostri interessi nazionali va nella direzione di una accresciuta sicurezza internazionale.

Una riconsiderazione dell’impostazione strategica della nostra Difesa non può però trascurare i mezzi. Non si tratta della quantità, che è una variabile dipendente dalle scelte politiche di destinare poche o tante risorse alla sicurezza, ma della qualità.

Anche in questo campo piuttosto delicato si dovrebbe usare ponderatezza e rifuggire da valutazioni solo apparentemente scontate del tipo: i mezzi devono essere i più avanzati possibile…

Si, certo ma a quali costi e soprattutto per farne cosa?

Finora il paradigma di riferimento in termini di scelta dei mezzi, con rare eccezioni, è stato quello di mantenere il passo con gli avanzamenti della tecnologia, che negli ultimi decenni sono stati particolarmente accelerati. Affascinati dalle nuove capacità che giorno dopo giorno la tecnologia faceva balenare si è pensato troppo poco ai costi e si voluto credere ad un contesto idilliaco di capacità crescenti a costi decrescenti. Cosa che purtroppo non è e che non potrà essere. La realtà è che la tecnologia costa, anche se relativamente meno in rapporto all’incremento delle prestazioni che fornisce.

Il paradigma: “tecnologia a prescindere” era destinato quindi a scontrarsi fatalmente con la limitatezza delle risorse, che anche nelle ipotesi più rosee di crescita economica del Paese rimarrebbero sempre in difetto rispetto a quanto necessario per l’acquisizione dei futuri mezzi e il loro mantenimento in servizio. Ed è quanto sta avvenendo non solo da noi ma anche in altri Paesi vicini, impegnati in laboriose ristrutturazioni che più che alla funzionalità mirano alla riduzione dei costi.

Sia chiaro che non si invoca alcun passo indietro anti-tecnologico: la tecnologia è fondamentale in tutti i campi del vivere odierno e soprattutto in quello assolutamente cruciale della sicurezza collettiva. Semplicemente, si intende sottolineare la necessità che i futuri mezzi della nostra Difesa abbiano un grado di sofisticazione tecnologica, e quindi dei costi, compatibili con le risorse che si presume disponibili e, nello stesso tempo, siano strettamente tagliati al contesto in cui questi mezzi saranno chiamati ad operare.

In termini di avanzamento tecnologico e di mezzi militari sempre più sofisticati noi, da sempre, abbiamo avuto come riferimento gli USA. L’industria USA è stata di ispirazione per l’industria nazionale degli armamenti: le nostre Forze Armate hanno mutuato dagli USA schemi organizzativi, concetti d’impiego e visioni operative per mezzi sempre più sofisticati tecnologicamente.

Il rapporto con gli USA è stato ed è talmente stretto da far sospettare che talvolta, consapevolmente o meno, si siano accettate acriticamente e fatte proprie delle visioni operative USA non coincidenti con le nostre.

In altre parole sembra che talvolta non si sia riflettuto abbastanza sul fatto che determinati programmi militari ad elevatissima sofisticazione tecnologica erano stati lanciati dall’alleato USA secondo logiche non sovrapponibili alle nostre.

Queste logiche erano svariate e potevano spaziare dalla vocazione storica di quel Paese a mantenere e semmai accrescere il vantaggio tecnologico sul resto del mondo, che è alla base della sua prosperità e del suo essere Superpotenza, ad aspetti più prosaici quali gli appetiti del complesso militare-industriale, già stigmatizzato nel lontano 1961 dal Presidente Eisenhower nel lasciare la Presidenza. Il fatto determinante tuttavia è che questi programmi militari erano e sono concepiti dalla Superpotenza per il possibile confronto con altre grandi potenze (Cina, India, Russia...) e non certo con realtà minori quali ad esempio i Paesi del lato sud del Mediterraneo, dei Balcani e del Medio-Oriente allargato che rientrano invece nel nostro orizzonte nazionale.

Escludendo la fattispecie della autodifesa contemplata dal Trattato Atlantico, è difficile immaginare per l’Italia un ruolo di attore in un eventuale futuro confronto a livello globale fra primarie potenze. Pesano i vincoli posti dalla nostra Costituzione (foto*) ed è determinante la scelta del nostro Paese di non esorbitare dall’ambito geopolitico di potenza regionale mediterranea.

La stessa collaborazione industriale fra l’industria USA e quella nazionale in taluni programmi ad elevata sofisticazione tecnologica, pur iniziata con le migliori intenzioni, si e scontrata spesso con difficoltà insormontabili. Il confronto industriale che avrebbe dovuto essere aperto e basato esclusivamente su parametri tecnici ed economici, spesso non lo è stato. Hanno pesato a nostro sfavore un oggettivo differenziale di dimensioni fra l’industria USA e quella italiana che ci ha visti spesso perdenti sul piano dei costi. Inoltre i vincoli di segretezza posti dal Congresso USA su molte parti dei progetti, che dovevano rimanere di esclusiva conoscenza americana, ci hanno escluso a priori dalla collaborazione per le parti più interessanti dei progetti.

Non si tratta di stravolgere l’esistente e neppure di mettere in discussione il rapporto transatlantico che è stato apportatore di grandi benefici in termini di innovazione e di sicurezza collettiva: semplicemente si tratta di adottare un approccio pragmatico alla Difesa che verrà che guardi a quelli che sono i veri interessi del nostro Paese. Il paradigma del “poco ma di tutto” con cui è stata finora organizzata la nostra Difesa non risponde evidentemente più ai nostri interessi. Così come il paradigma della tecnologia a prescindere necessita di essere rapportato alle nostre prospettive economiche, al contesto geopolitico di nostro interesse e non ultimo alle potenzialità della nostra Industria della difesa.

È un doveroso esercizio di realismo e di chiarezza che non può più essere rimandato.

(foto: U.S. Army / web / Armée de l'Air / U.S. Marine Corps / U.S. DoD / Lockheed Martin / Bundesarchiv)

* le immagini sono scelte dal direttore della testata