L’ambìto logorio del potere

(di Gino Lanzara)
06/06/19

Partiamo da un presupposto: parlare di politica non equivale a parlare di santità; si tratta di concetti incompatibili: la politica è respiro rabbioso, è religione laica, la santità afflato eterno.

(Tentare di) Scrivere di una personalità complessa come quella di Giulio Andreotti, a 27 anni dal suo ultimo governo, induce a diverse considerazioni non solo sull’uomo, ma anche sulla realtà in cui ha agito e sui cambiamenti che, da allora, la società italiana ha vissuto. Guareschi, passionalmente, avrebbe risolto la questione invitando tutti a rispettare la voce della coscienza: “...roba mia personale, affari interni miei. Quindi: ognuno per sé e Dio per tutti.”; per quanto ci riguarda qui non c’è spazio per agiografie elegiache, ma solo per analisi storico politiche, nella consapevolezza che le conclusioni non potranno che condurre ad esiti controversi, dato che, per quanto riguarda il nostro Paese, l’era degli statisti e dei cosiddetti politici di razza, sembra essersi conclusa da molto tempo.

Come accaduto a tutti gli uomini di potere, anche Andreotti ha dovuto soggiacere a sarcasmo ed ironia, talora impietosi, ma a lui congeniali per un’innegabile e riconosciuta dote: un’intelligenza acuta, tagliente e fredda, capace di disegni politici complessi e di sintesi fulminanti e salaci, di arguzie che provocavano pochi sorrisi tirati. È politica, è esercizio del potere, come è sempre stato; al di là dell’inevitabile piaggeria, oggettivamente, Andreotti non è mai riuscito a suscitare unanime empatia; ciò tuttavia, non può impedire il riconoscimento di un’innata abilità nell’arte del governare sia l’impulsività sia lo spirito melodrammatico italici, capacità queste che gli hanno permesso di traguardare l’orizzonte politico conciliando gli aspetti contingenti, facoltà ad altri precluse o per ottusità ideologica o per carenze intellettuali, servendosi di ogni mezzo politico lecito.

La stessa Oriana Fallaci, pur non rientrando nella schiera dei corifei, ha riconosciuto queste doti, e non ha potuto fare a meno di stigmatizzare un intelletto così spiccato da non aver bisogno di essere esibito, un’intelligenza che aveva attratto la curiosità di de Gasperi prima e l’ammirazione di Kissinger poi. Quelle che Sciascia avrebbe definito ingiurie1, hanno marchiato l’uomo senza avvedersi della creazione di un arco ideale ininterrotto dalle profondità luciferine, fino a giungere alla taddema2 della santità, dalle sommità celesti al fango terreno, senza che il divino demone mostrasse apparenti stupori.

L’inguaribile cinismo lo ha portato a riproporre efficacemente la massima per cui il potere logora chi non ce l’ha, coniata da Tayllerand: ma chi avrebbe potuto notarne la differente paternità? Quanto è cambiata l’Italia e, soprattutto, quanto può essere ora comprensibile, al netto delle partigianerie, un uomo intessuto nella trama stessa della politica? Poco, tenuto conto che lui stesso, pur definendosi fisicamente di media statura, non riusciva a scorgere giganti sulla scena; una statura che tuttavia non gli ha impedito di tenere testa a personalità come quella della Thatcher, grazie a diplomazia e capacità politiche non comuni, doti oggi quanto mai necessarie su palcoscenici poveri di veri talenti.

Fu lui, il conciliatore degli opposti, il garante italiano dell’atlantismo, a guidare i governi di unità nazionale alla fine degli anni ’70 con il paradossale appoggio esterno del PCI, considerato funzionale al dialogo con i sindacati, per arrivare alla politica dei due forni, tornata d’attualità, ma non esperibile con la sua maestria per carenza di idonei attori, con l’ultima tornata elettorale del 2018. Max Weber, solo per questo, lo avrebbe posto tra coloro che vivono per la politica, e non di politica.

Oscillazioni politiche bipolari

Le scelte de gasperiane e la visione atlantica sono state alla base della formazione internazionale di Andreotti, e sono rimaste ben presenti durante tutto il periodo bipolare della Guerra Fredda, tanto da permettere sia un ampliamento dell’azione diplomatica in ambito mediterraneo, curando il punto di vista italiano e perseguendo politiche talvolta collidenti con quelle USA, sia di continuare a coltivare un ideale unitario europeo, ma senza farsi cogliere da incauti entusiasmi3. Un cattolico realista, dunque, manovratore attento dello statu quo del potere, un geopolitico competente, che seppe gestire il ruolo italiano sia prima che dopo il crollo sovietico permanendo convintamente sulla sponda atlantica ma con una politica levantina e filo araba, rimanendo dunque nel solco strategico tracciato dall’ENI di Enrico Mattei, e cercando di evitare il ricorso ad interventi drastici.

Pragmatico, ma non provinciale, il Divo comprese l’importanza di non poter consentire che l’Italia venisse relegata in un ruolo subordinato, malgrado fosse penalizzata da debolezze strutturali congenite.

Tutte luci? No, assolutamente; lo abbiamo già detto, qui non parliamo teologalmente di santità: la politica andreottiana fu anche colpevolmente altalenante, perdurante e tragica caratteristica italica, ed alla ricerca di un impossibile equilibrio internazionale, tirata da un lato da pulsioni vaticane e dall’altro dalle asperità della realpolitik, che allontanarono talvolta i suoi esecutivi da una immediata, proficua e laica visione strategica complessiva. Fu comunque concreto, mai visionario, generalmente attento a quelli che erano, in politica estera, i capisaldi dell’interesse nazionale in momenti storici vissuti sovente in modo drammatico da un Paese non sempre cosciente della sua limitata sovranità post bellica.

La fine della Guerra Fredda, per Andreotti, ha decretato la fine di un’architettura politica che, probabilmente, non avrebbe superato le prove imposte da un mondo multipolare, basato sul parossismo dei social, privo di momenti di riflessione e di reale cultura politica.

Tra più fronti

Il nostro Paese, storicamente, ha sempre volto con maggior propensione la sua attenzione politica agli eventi interni, non curando le evoluzioni internazionali: il cortile ha prevalso sulle tematiche estere di più ampio respiro. Il nostro status di media potenza regionale, elevato temporaneamente dopo il 1918 e ridimensionato dopo il 1945, ha trovato giustificazione nella carenza di tradizioni e studi specialistici in materia internazionale. Del resto basta scorrere gli elenchi dei ministri degli esteri delle più affermate potenze per rendersi conto che, un soggetto politico consapevole dei suoi obiettivi, non muta facilmente il suo tecnico diplomatico, dando per scontato che gli interessi nazionali di base non varino a prescindere dagli schieramenti. Forse.

Andreotti fu Ministro sia degli Esteri che della Difesa, avendo così modo di approfondire tematiche comuni ai due dicasteri sia pur da prospettive diverse ma coincidenti su più punti; comprese, ad esempio, l’importanza di una Marina Militare efficiente nel contesto del suo Mediterraneo, e riuscì sia a dotarla dell’Incrociatore Caio Duilio, sia a tentare di equipaggiarla con battelli a propulsione nucleare.

Cattolico? Si, ma come sempre realista, pragmatico, garante verso gli americani (fino agli eventi di Sigonella) ma non per questo non europeista tanto da sottoscrivere il Trattato di Maastricht; atlantista critico ma fedele, filoarabo, attento alla politica sovietica; non a caso, già dal 1982, individuò la Siria, ed il Presidente Assad, quali protagonisti di spicco dell’area medio orientale, senza contare i rapporti intrattenuti con Arafat e Gheddafi, divenuti poi interlocutori di rilievo in ambito diplomatico internazionale.

Giochi Competitivi

Proviamo a giocare: cosa sarebbe accaduto nella contemporaneità con un Andreotti nel pieno delle sue facoltà e, soprattutto, preceduto, contornato – ed avversato - da soggetti politici della caratura di De Gasperi, Gramsci, Fanfani, Gronchi, del Migliore, di Pietro Nenni, di Enrico Berlinguer?

Poniamo una ideale plancia da master mind per ogni possibile antagonista, e valutiamo, a prescindere dal momento storico ma basandoci sulle idee, gli avvenimenti. Intanto non potremmo non tenere conto del principio gramsciano dell’egemonia culturale, ovvero del concetto che individua le diverse forme di dominio culturale da parte di un gruppo o di una classe capace di imporre i propri punti di vista con ciò permettendo di creare le basi per un effettivo e complesso sistema di controllo: praticamente la fine dei titoli accademici rilasciati in 600 secondi da Google.

L’evoluzione della UE avrebbe dato piena ragione circa i dubbi in ambito economico, ma avrebbe probabilmente incentivato a tentare di accrescere la valenza politica comunitaria e transnazionale (ancora non pervenuta): di fatto un pietoso colpo di spugna sulle eteree politiche estere europee degli ultimi anni. Possiamo supporre un rilancio delle politiche nazionali di mediazione tra blocchi egemoni rinnovati, con una capitalizzazione della rendita di posizione geografica italiana, ora come non mai prezioso ponte tra la dirompente realtà africana ed il vecchio Continente: in concreto un rilancio delle politiche volte a valorizzare e comprendere i sommovimenti Nord Africani, con un occhio di riguardo alla prima delle perle mediterranee dell’ENI, la Libia.

Rimanendo sul cane a sei zampe, potremmo anche azzardare un’evoluzione del concetto di rilevanza mediterranea associato alla cura delle politiche ENI, con un allargamento strategico del panorama complessivo degli interessi italiani. Uno degli esercizi logici più divertenti, probabilmente si sarebbe sostanziato nella competizione prima con la Turchia, sempre ammettendo che una reale azione politica europea avrebbe permesso, in presenza di politici di vecchia scuola, l’emersione di un revanchismo ottomano in Anatolia, poi con il rampante neogollismo francese.

Come è possibile vedere, le possibili combinazioni sono molteplici, ed altre potrebbero aggiungersene; del resto per Weber “...la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile...”.

Forse è questa la politica che manca; forse, ora, mancano gli uomini capaci di realizzarla.

1 Soprannomi

2 Diadema

3 Da rammentare la sua battuta: amo talmente tanto la Germania che ne preferisco due