Due volte vittime

(di Paolo Palumbo)
31/05/17

L’attentato di Manchester racchiude diversi significati che marcano – una volta di più – la differenza tra islamismo e Islam tout court. Come hanno menzionato diversi quotidiani, l’esplosione al concerto di Ariana Grande è l’episodio più grave di terrorismo che ha toccato la Gran Bretagna dal luglio 2005, con un'eco d'indignazione se possibile ancora maggiore. L’opinione pubblica è infatti rimasta sconvolta dalla fredda e crudele scelta dell’obiettivo da parte dei terroristi, che lungi dall'essere pazzi fanatici senza controllo, hanno deciso di ferire la Gran Bretagna colpendo la popolazione più giovane. Ancora una volta lo Stato Islamico si è rivelato in tutta la sua spietatezza e aridità; uomini senza onore, capaci di sconfessare il loro stesso credo giacché nel Corano la vita dei bambini è sacra sin dal giorno del loro concepimento.

D’altronde, quanto è successo non deve stupire più di tanto: se pensiamo alla vita quotidiana di un bambino nei territori dominati da al-Baghdadi ci rendiamo subito conto di come inumanità, violenza e coercizione siano all’ordine del giorno. Le immagini video dei ragazzini addestrati a trovare il prigioniero per poi scannarlo come in un macabro videogame sono nella memoria di tutti, così come le scuole di indottrinamento alla sharia che propugnano odio e violenza contro l’Occidente.

Il terrorismo in genere è una costante negazione dei valori della vita: cosa importa dunque se a morire siano creature per di più partorite da "infedeli"? Le dichiarazioni di Abu Muqatil che invitano ogni musulmano ad infierire sui crociati in qualsiasi parte del mondo e in qualunque circostanza, hanno sortito un effetto devastante snaturando, di fatto, la definizione stessa di “Lupo Solitario”. Nessuna azione è casuale e ogni espressione di violenza ha sempre una chiara paternità.

Uccidere dei bambini festanti al concerto di una teenager raggiunge un duplice scopo: il primo è quello di insinuare, anche tra i giovanissimi, il sentimento di insicurezza e sgomento che da tempo alberga nella mente dei più adulti; in secondo luogo, i terroristi sperano di aizzare l’odio verso la parte buona dei loro correligionari, cavalcando così l’ondata di populismo che sta avviluppando buona parte dell’Europa.

Le manifestazioni anti islamiche, l’odio e la discriminazione sono due ingredienti base per condurre ad una rapida radicalizzazione e dunque a nuovi potenziali volontari del terrore. Attentare alla vita di un adolescente nell’atto di divertirsi serve, inoltre, ad ammonire gli stessi giovani musulmani ai cui il medesimo diritto è negato con efferata crudeltà. Irriterà molto gli jihadisti sapere che i teenager occidentali, apparentemente schiavi di telefonino, social e videogame,  nascondano, nella loro leggerezza il coraggio di non avere paura e di non averne in futuro. E proprio in questo che gli islamisti falliranno, poiché i ragazzi di una certa età vivono circondati da un alone di coraggiosa incoscienza che scavalca i timori di cadere vittima di un attentato ad un concerto pop. La sospensione delle esibizioni musicali in programma è stata una scelta giusta e doverosa, soprattutto per scongiurare ulteriori attacchi, ma è fondamentale ritornare alla normalità nel più breve tempo possibile. Il gesto della Regina Elisabetta II, attenta nel rispettare la sua agenda di appuntamenti, è stato criticato, tuttavia ha un fondo di coerenza rispetto a quello che si deve fare contro la strategia del terrore: non rinunciare a vivere.

Terrorismo infaticida

I bambini sono due volte vittime: sia quando periscono in un attentato, sia quando loro stessi diventano un incosciente strumento di morte. I reclutatori dello Stato Islamico, ma anche di al-Qaeda e di tutte le organizzazioni islamiste, hanno sempre investito molto sull’indottrinamento degli adolescenti: i più giovani sono facilmente manipolabili e il loro sacrificio attira l’attenzione morbosa dei media internazionali. L’uso di minorenni per il bieco raggiungimento dei loro fini è, dunque, una prassi consolidata nella sfera dell’estremismo islamico e dura da diversi anni.

Assaf Moghadam, nel suo The Globalization of Martyrdom, racconta come durante la guerra Iran-Iraq il regime iraniano abbia arruolato bambini per ingrossare le file delle cosiddette “ondate suicide”: “Each attack consisted of up to 20.000 children as young as twelve or thirteen who were sent into the line of fire and across minefields, with no backup. Exploding the mines with their own bodies, these children were used to clear the way for the soldier who followed them”. La chiamata alle armi dell’ayatollah – il cui slogan recitava “Offri uno dei tuoi bambini all’Imam” – ottenne risultati orribilmente positivi, con l’arrivo in massa di giovani creature pronte a tutto pur di compiacere il rappresentante di Allah. Moghadam cita il caso iraniano non tanto per la sua connessione al terrorismo – si trattava, infatti, di una guerra combattuta tra due Stati sovrani – quanto per rimarcare l’efficacia persuasiva usata dai religiosi radicali. Il medesimo lavaggio del cervello lo subirono i piccoli iracheni arruolati negli Ashbal Saddam (I leoncini di Saddam) addestrati per affrontare gli alleati dopo la prima Guerra del Golfo. Diverse testimonianze di marines che combatterono a Mosul riferirono di numerosi attacchi compiuti da ragazzi neanche maggiorenni i quali imbracciavano il fucile o nascondevano esplosivi. Il macabro primato nel campo degli attentatori suicidi minorenni spetta ad Hamas e alla Jihad Islamica palestinese. Peter W. Singer, autore del saggio The New Children of Terror, riferisce come: “At least thirty suicide bombing attacks have been carried out by youths since the Israel-Palestine conflict sparkedup again in 2000”. Ultimamente gli episodi più eclatanti su bambini usati come bombe umane riguardano Boko Haram, degno partner dell’ISIS in Nigeria; in un rapporto stilato dall’UNICEF nel 2016, risulterebbero in attività oltre 2.000 ragazzi sotto i diciotto anni sfruttati come combattenti e potenziali martiri.

Regole di ingaggio: anziani, donne e bambini

Nella nona uscita del giornale propagandistico dell’ISIS Rumiyah, un articolo intitolato The Ruling on the Belligerent Christians circoscrive, in maniera al quanto vaga, quali siano gli obiettivi legittimi o illegittimi tra i cristiani. Secondo la visione farneticante dell’ISIS, la jihad considera un dovere irrinunciabile l’assassinio di chiunque minacci o brandisca un’arma contro i musulmani, nel contempo devono essere eliminati, senza distinzione, anche tutti coloro che sostengano materialmente e idealmente chi combatte contro l’Islam. Il cerchio degli esclusi dalla lama vendicatrice di al-Baghdadi si restringe, dunque, in modo drammatico. Per quanto concerne i più deboli, l’opinione è che il sangue versato di donne, vecchi e bambini sia inutile: “As for those who don’t normally carry weapons, such as women, children, the elderly, and the infirm, the default with them is that they are to be taken as slaves, not that they are to be killed”. Le regole d’ingaggio sottolineano, inoltre, che soggetti inermi possano essere uccisi non intenzionalmente quando si trovino in prossimità di obiettivi strategici: “Therefore, the killing of their women and children occurs as a consequence and is not deliberate, such as when they are killed in a raid by the mujahidin where it is difficult to distinguish between the fighters and the non-fighters, or when they are killed by a weapon that has a wide range of damage, as in the case when conducting artillery bombardment, or detonating explosive belts or car bombs in places where the fighters are present and they are mixed together with them”.

Ancorché l’arena di Manchester sia stata scelta con oculatezza, la comunità jihadista giustifica la morte di innocenti con la stessa formula adottata dagli eserciti occidentali, classificandoli come “danni collaterali”. L’equiparazione dei termini è pura follia: la definizione stessa di terrorismo implica che a morire siano soprattutto vittime inermi senza alcuna valenza militare. In più c’è un’evidente incoerenza quando si parla di morti accidentali provocate da “explosive belts or car bombs”: proprio uno shahid ha, di fatto, la possibilità di scegliere come, quando e dove innescare il suo carico di morte. Quando uccide donne e bambini lo fa sempre consapevolmente.

Ogni volta che un’organizzazione jihadista si prepara a colpire, lo fa pianificando schemi diversi e inusuali, adeguando il proprio modus operandi alle contromisure prese dai governi occidentali. Una costante però emerge dopo ogni attentato: le forze dell’ordine e l’intelligence conoscevano l’attentatore. Allora è proprio su questo punto che l’antiterrorismo deve lavorare, concentrandosi sullo spazio temporale che separa il criminale dal suo obiettivo. Un’accurata raccolta di informazioni e la successiva condivisione dei risultati, potrebbe effettivamente bloccare i sospettati ancor prima di armarsi. I governi europei però, hanno ancora qualche esitazione nell’usare con disinvoltura quelle che vengono definite “misure di alta polizia”, giudicate spesso come un’indebita intrusione nella vita di tutti i giorni. Il male peggiore è la propensione occidentale ad affrontare questi tragici fatti come una cosa a se, disgiunta dalla vita di tutti i giorni. La dinamica degli ultimi attentati dimostra l’incapacità ad imparare dai nostri errori, lasciando i terroristi liberi di agire sempre nello stesso modo.

(foto: web)