Andiamo in Libia. Con quale cultura?

25/02/15

L'’intervento in Libia è oramai una certezza, si tratta solo di deciderne i tempi: la soluzione diplomatica non ci esenterà dal mandare in futuro addestratori, truppe sul terreno e quant'altro. Lo hanno capito Gentiloni, Pinotti e perfino Renzi, checché ne dica. Lo hanno capito tardi, tuttavia.

Chi davvero ha qualche idea di geopolitica, in Italia, lo ha capito sin dal 2011, quando ha ritenuto fin troppo avventato l'’intervento franco americano, e lo ha ribadito negli ultimi mesi. Tra questi, sicuramente, anche gli analisti dei nostri Servizi, sempre troppo poco ascoltati.

Non lo ha capito una classe politica che tratta tanto la politica estera quanto le Forze Armate come meri terreni di conquista elettorale, dimostrando una incompetenza bipartisan in entrambi i campi, che spiega bene l’'assenza italiana al summit di Minsk.

Chi ha un minimo di competenza geopolitica sa che la Libia è una questione da Mare Nostrum, dove tale locuzione latina non è da associarsi all'’operazione per la salvaguardia degli immigrati, ma al suo originario significato in cui Roma, oggi l'’Italia, assurge a potenza geopolitica dell’'area mediterranea.

Duplice è la vocazione geopolitica nostrana e duplice è la situazione di difficoltà in cui ci troviamo: da una parte, i nostri storici legami con Mosca e i suoi alleati balcanici (Serbia in primis, ma anche Albania prima e dopo la storica rottura di epoca sovietica), ora inficiati economicamente dalle sanzioni che gli statunitensi ci hanno imposto nei confronti di Putin.

Dall'’altra, i nostri legami –anch'’essi storici –con i partner mediterranei, che da sempre includono zone come la Siria, il Libano, l’Egitto, la Libia, la Tunisia. Tutti paesi in cui la pesante mano statunitense è arrivata in maniera distruttiva, inficiando le possibilità geopolitiche del nostro paese, anche e soprattutto come hub energetico europeo.

Russia e Libia sono ad oggi tra i maggiori (se non I maggiori) fornitori energetici nostrani, e sono fornitori che rischiamo di perdere. Questo è bene spiegarlo agli italiani, che ancora soffrono troppo di soft power hollywoodiano e che pensano ad Obama e ai diritti umani come unico valore importante. Le sanzioni alla Russia e l’'anarchia in Libia ci danneggiano economicamente: questo agli italiani deve essere chiaro. Come deve essere chiaro che la politica italiana nell'area mediterranea è un perno fondamentale per far girare la ripresa economica: significa sviluppare nuovi mercati, nuovi scambi, nuove possibilità per le nostre imprese (grandi, medie e piccole).

Come tutte le crisi, quella libica rappresenta per l'’Italia anche una chance. Innanzi tutto, la chance di dimostrarsi una nazione responsabile che aiuta gli altri paesi, con i quali ha un legame storico.

È dovere dell'’Italia far sì che nella sua area di influenza si creino le condizioni per la crescita degli stati partner, crescita che sia compatibile con la cultura autoctona (concetto questo che era ampiamente chiaro al lungimirante Enrico Mattei e che non sarà mai chiaro agli americani).

È una chance italiana ed europea per dimostrare per la prima volta sul campo la capacità di controllo dei confini e stabilizzazione delle aree attigue, attività che denoterebbe finalmente la capacità della UE di agire come reale soggetto politico, oltre che meramente economico. Ed è una chance italiana per dimostrare che non è solo l’'economia a rendere uno stato globalmente importante, ma anche e soprattutto la sua capacità di stabilizzare un’'area socio politicamente parlando, arginando de facto quella che si preannuncia la peggior catastrofe umanitaria sui confini europei dalle guerre balcaniche in poi.

Queste sono le idee con cui dobbiamo preparare politicamente un intervento in Libia. Un intervento che però sul terreno verrà fatto dai nostri ragazzi in divisa, questo è e rimane un dato di fatto.

Alessandro Vivaldi

(foto: archivio Palazzo Chigi)