La guerriglia vista da vicino. Intervista al prof. Gastone Breccia

(di Antonio Vecchio)
23/06/16

Chi ha detto che l'interesse per la guerriglia abbia i caratteri della modernità; il primo trattato che si occupa del tema è bizantino e risale al X secolo ”.

Va giù diretto Gastone Breccia, ordinario di Storia Bizantina all'Università di Pavia e storico militare per passione, alla presentazione ieri a Bologna, dei suoi due ultimi lavori pubblicati per il Mulino: “l'Arte della guerriglia” e “Guerra all'ISIS”

Due libri legati fra loro, scritti per fornire a studiosi ed appassionati nuovi strumenti di comprensione con cui interpretare i conflitti attuali: fortemente asimmetrici, non lineari, e sbilanciati a tutto vantaggio del contendente più debole.

Il primo volume dedicato ad una forma di combattimento, che ha annoverato tra i principali mentori figure del calibro di Sun Tzu, Lawrence d'Arabia, Mao Tse Tung, Che Guevara. E l'immenso Amedeo Guillet.

Il testo fornisce una chiara definizione della teoria della guerriglia, le diverse tattiche che la contraddistinguono, con un accenno alla sua legittimità, perché: “noi occidentali consideriamo la guerriglia sleale, non rammentando che Sant'Agostino sosteneva che se si combatte per una causa giusta, non importa se lo si fa in campo aperto o ricorrendo ad imboscate e astuzie”.

L'analisi dell'autore si sposta allora su cosa debba essere considerato attacco legittimo e sul discrimine tra terrorismo e guerriglia; confine sottile che individua nel coinvolgimento o meno di gente innocente.

Un'analisi scrupolosa, lucida, descritta in forma diretta e di facile lettura, che ha posto le basi per il secondo libro, quello dedicato alla guerra all'ISIS.

Un lavoro che lo ha portato sul campo, per vedere in prima persona come un esercito regolare, quello curdo, si comporta contro uno irregolare, ed intervistare i capi militari del Kurdistan iracheno (Peshmerga) e di quello siriano (PKK).

Un viaggio che gli ha permesso di veder da vicino come i paracadutisti dell'Esercito Italiano, per un caso gli stessi che aveva conosciuto nel corso di un precedente missione di studio in Afghanistan, addestrano quella che è la (nostra) prima linea contro Isis: una prima linea fatta anche di trincee, come usava 100 anni fa, nelle quali si vive e si muore, gomito a gomito, nell'indifferenza di un Occidente distratto.

Professore perché è così importante parlare di guerriglia in un mondo come quello attuale?

Perché la guerriglia è lo strumento di molti soggetti attivi nei conflitti attuali, che non hanno modo di adottare sistemi di combattimento regolari: gli insorti afghani, quelli iracheni, gli insorti della guerra civile siriana non possono fare altro che adottare tattiche di guerriglia perché non hanno gli strumenti per un confronto che noi chiameremmo regolare.

Oggi più che mai questo si ripete su scala planetaria: vi sono moltissimi focolai di guerriglia ancora accesi.

Questo è un confronto che si riflette anche su un versante psicologico, perché da un lato abbiamo le nazioni occidentali con soldati iper-protetti, che usano armi ed equipaggiamenti volti al ridurre a zero il rischio di perdite; dall’altro combattenti come potevano esserlo molti secoli fa, forti esclusivamente di una personale motivazione a combattere, e se necessario a morire.

Questo è verissimo, e pone un problema morale molto grosso. Mi sono sentito obbiettare in Afghanistan: voi venite qui e pensate più alla sicurezza dei vostri uomini che non a combattere per vincere.

La force protection è un problema grossissimo perché, per motivi politici, i paesi occidentali devono proteggere i propri soldati, in quanto ogni morto pesa tantissimo nei confronti dell’opinione pubblica; e questo è percepito come una debolezza dai nostri nemici, che si convincono che, contro un tale nemico, se terranno duro, potranno sicuramente vincere.

E così il guerrigliero che si espone con turbante e kalashnikov contro il soldato super protetto da giubbotti antiproiettile ed armamenti iper-moderni acquisisce, nei confronti della propria gente, soprattutto in certe culture ancora legate al concetto di coraggio in guerra e di sacrificio, un vantaggio morale enorme.

Lei è un accademico che di libri ne ha scritti tanti, di vari temi; però i due volumi che ha presentato oggi derivano da una sua diretta esperienza sul terreno; aspetto questo di non poco conto, che la pone in controtendenza con la tradizionale distanza che separa lo storico dall’evolversi degli accadimenti, che è invece il naturale terreno del giornalista: perché preferisce spostarsi in prima persona?

Un po’ per spirito di avventura, un po’ perché mi entusiasma stare con i nostri soldati in Afghanistan o i guerriglieri curdi, vedere come risolvono giorno per giorno certi problemi sul terreno di cui noi siamo portati a discutere solo in astratto: quindi un desiderio di toccare con mano, che non riguarda solo l’aspetto scientifico della mia ricerca.

Un po’, e questo riguarda soprattutto il Kurdistan, è la mancanza di informazione, di bibliografia, di studi scientifici sulla guerra all’ISIS, che mi ha in parte costretto ad andare a raccogliere in prima persona testimonianze, a cercare fonti su cui gradualmente costruire una riflessione.

Questo primo libro sulla guerra all’ISIS è solo un primo passo.

Questo libro l’ha portata a conoscere Daesh ad una distanza ravvicinata: che impressione si è fatto dell’intero fenomeno?

Dal punto di vista militare è stato probabilmente ingigantito da loro stessi, dalla loro propaganda. Militarmente è più vulnerabile, con un morale molto più fragile di quanto ci si aspetterebbe.

I combattenti e le combattenti curde mi hanno più volte confermato che i miliziani dell’ISIS, di fronte alle prime difficoltà sul campo, sovente si sbandano, non hanno la tenacia e la saldezza morale che si attribuisce loro comunemente.

Dal punto di vista militare siamo quindi portati ad esagerare la loro efficienza.

L'ISIS è comunque un fenomeno complesso. Non è un blocco unico, ma formato da vari elementi diversi fra loro: gli ex ufficiali dell’esercito di Saddam; i professionisti della guerriglia pagati per combattere, molti dei quali provenienti dal Caucaso dove hanno appreso ed impiegato sul terreno (contro i sovietici o i russi) tattiche di guerriglia; e poi gli idealisti, quelli pronti ad immolarsi per una idea dell’Islam molto estrema, meno efficienti sul terreno ma più letali quando decidono di farsi saltare in aria, trasformandosi in una micidiale arma di natura tattica.

Prossimi progetti e viaggi?

Domanda complicata al momento perché sono sotto contratto con due case editrici diverse, per due libri che dovrò scrivere rapidamente: uno sulle guerre bizantine che sto finendo ed uno su Scipione l’Africano. Finiti questi due progetti mi piacerebbe continuare questo tipo di ricerca sulla guerra irregolare del XXI secolo.

Ho un idea di tornare in Kurdistan dove ho ormai dei contatti, oppure di andare in Ucraina, nel Dombass, se non nella zona di combattimento, almeno in quella più ampia del conflitto, dalla parte dei ribelli filo russi.

E questo potrebbe essere veramente molto, molto interessante.