Contractors: "Puoi sparare benissimo, avere alle spalle 20 anni di Forze Speciali, ma se non sai le lingue non vai da nessuna parte"

(di Giusy Federici)
10/07/18

Adesso sto lavorando con la compagnia GardaWorld, in Libia, Non posso dirti chi è il cliente, ti dico solo che è una missione diplomatica”. Luca è un contractor, serio e certificato. Luca non è il suo nome, perché promettere l’anonimato a chi decide di raccontarci le proprie esperienze sul campo è come minimo d’obbligo, per una questione di sicurezza mentre si è operativi. Paracadutista nel 183° Nembo, “Ho fatto il militare come Vfp, mi sono arruolato nel ’93, in quel periodo si poteva rimanere 5 anni. La mia compagnia era la 20esima Puma”, dice entusiasta.

Da 10 anni lavoro nel settore, ma conosco chi che lo fa da oltre 20 anni, persone che erano in Iraq già nel 2004, che hanno subìto imboscate, sono stati feriti e hanno perso compagni…”.

Come si arriva a fare questo lavoro?

Mi chiedi come si entra nel giro dei contractor? Io ci sono entrato tramite amici, tramite una persona che era in Iraq nel 2004 e che conoscevo per aver fatto insieme a lui il servizio militare. In gran parte si entra così, tramite il passaparola con chi è già dentro e soprattutto oggi che la situazione è cambiata rispetto all’Iraq del 2004, dove servivano migliaia di persone. Oggi i posti sono di meno, la preparazione richiesta è specialistica, il circolo è diventato sempre più ristretto. Il curriculum richiesto è come minimo da ex delle Forze Speciali o civile ma estremamente preparato. Per chi ha fatto un “semplice” Vfp, che può essere un paracadutista, un San Marco etc, ce ne sono a migliaia che aspirano a entrare ma i posti sono pochi.

Questo accade perché un Vfp ha poca esperienza per il lavoro sul campo e quindi si preferisce un militare di carriera con doti specifiche?

Il discorso per gli italiani è più complesso. Come sai, le compagnie di contractor sono straniere, il mercato è in gran parte nelle mani di compagnie inglesi. E allora, perché una compagnia inglese dovrebbe metter sotto contratto un italiano quando loro hanno migliaia di ex militari che stanno cercando lavoro? Anche ex Sas, Royal marines, paracadutisti, etc, persone che magari sono state in Iraq e sono a disposizione. La compagnia inglese arruola un italiano quando c’è bisogno che si parli la nostra lingua, in genere quando il cliente è italiano.

È il caso di aziende come Eni che, magari, vorrebbero personale italiano ma vista la nostra legislazione, deve affidarsi a compagnie straniere come Aegis?

Molte aziende, per posizioni come security manager, assumono sudafricani o inglesi, da un lato perché hanno più esperienza, dall’altro non so se è una politica interna. Gli italiani che adesso sono giù in Iraq stanno lavorando con Aegis mentre in Libia, dove sono io, c’è un contratto di tipo diplomatico (di più non posso dirti) e hanno bisogno di personale solo europeo e quindi anche di italiani. Oppure, se un nostro connazionale parla varie lingue o è un paramedico, si aprono più opportunità.

Tra i professionisti, quindi, servono anche esperti di medicina combat o poliglotti?

Assolutamente sì. Quelle figure sono molto richieste, nonostante sia difficile entrare. Poi, una volta che sei dentro, se fai bene il tuo lavoro, scatta il passaparola e ti chiamano. Però, ripeto, se la compagnia inglese non ha un cliente italiano, è difficile che assumano un operatore del nostro Paese.

Parliamo un po’ della tua storia: anche se non sei stato ferito, tu hai lavorato in teatri difficili come Nigeria, India e ora Libia…

Sono molto d’accordo con quello che ha detto Carlo Biffani (leggi intervista). Oggi l’immagine del contractor con la barba lunga, i tatuaggi, il fucile in mano, è una figura che non esiste quasi più, è più mitica che reale. In Nigeria – quando sono stato io, il cliente era Chevron e la compagnia di contractor la G4S – gli stranieri non possono portare armi, quindi eravamo lì come consulenza. Lì è il personale locale ad essere armato. Accadeva lo stesso quand’ero in India, come guardia del corpo a Mumbai, dove il lavoro era più di coordinamento con i locali, che erano quelli armati, e di raccolta informazioni. In India uno straniero non può portare le armi. Adesso, in Libia, il mio è un lavoro di scorta ed essendo il Paese ad alto rischio siamo armati. Ma anche lì, confermo quel che ti ha detto Biffani, andiamo in giro in giacca e cravatta e le armi devono essere ben nascoste. La figura del contractor di oggi è altra cosa rispetto ai tempi della Black Water, per immagine e per ingaggi. Oggi le regole di ingaggio sono severe, è cambiato tutto.

Meglio, no? Perché le regole da seguire, da parte di società quotate in borsa, vi danno una connotazione professionale…

È così. Ed è anche vero il fatto che oggi una compagnia, prima di assumere, fa tante ricerche. Io ad esempio, ho sempre dovuto presentare tanti documenti e referenze. Non è più come un tempo, quando prendevano praticamente tutti, c’era quello buono ma anche quello cattivo e sappiamo come è finita. Oggi la selezione è ardua anche da questo punto di vista.

Gli italiani come sono considerati?

Quelli che lavorano in loco sono bravissimi, capaci da far mangiare la polvere ad americani e inglesi. Il limite più grande, per molti italiani, è la lingua. Ho visto tanti italiani che avevano tutte le opportunità di avere un contratto e non ci sono riusciti perché non parlavano inglese. Puoi sparare benissimo, avere alle spalle 20 anni di Forze Speciali, ma se non sai le lingue non vai da nessuna parte. Io ho visto persone assunte arrivare nel Paese ed essere cacciati dopo una settimana per questo motivo. Non è bello e non fa bene agli altri italiani che, per pochi che “sputtanano” la categoria, poi devono lavorare il doppio degli altri per dimostrare di essere all’altezza.

Gli stranieri tendono sempre a generalizzare quando si tratta di italiani…

Esatto. Quindi, per chi oggi volesse entrare in questo mondo, le lingue sono fondamentali al pari della preparazione tecnica. Più che spendere migliaia di euro per andare al poligono e comprare l’equipaggiamento, forse dovrebbero investire in un corso di lingua.

Voi, in loco, fate anche addestramento al tiro?

In Libia no, la situazione è troppo complicata. Lì è difficile avere le armi, perché ci sono società locali che forniscono uomini armati, figurati andare a sparare. Siamo armati, facciamo training, però a livello di addestramento al tiro non se ne parla. Adesso si pensava di portarci in un Paese terzo solo per fare questo tipo di attività, ma se ne sta solo parlando, almeno per ora. In Iraq o in altri posti forse è più semplice.

Le Ong e la cooperazione internazionale: hanno bisogno di voi anche se lo negano e vi denigrano, anche se li andate a salvare in situazioni a volte imbarazzanti…

Io nella mia carriera non ho mai lavorato con le Ong, ma da quel che dicono i colleghi la situazione è questa. Ed è vero, in Italia si associa ancora troppo la parola contractor al concetto di "mercenario". Ho letto, qualche settimane fa, le dichiarazioni del ministro della Difesa Elisabetta Trenta che, per aver messo in chiaro che i contractor non sono mercenari – ed è la verità – è stata attaccata su più fronti, mettendo in mezzo persino i missili terra-aria di Gheddafi. Capisco che certi giornalisti devono vendere e che parlare di mercenari e operazioni in Libia aiuti a farlo, ma credo anche che tutto questo sia lontanissimo dalla verità. Che qualche contractor italiano abbia la possibilità di andare in Libia, vista la situazione di prima e di adesso, e fare un’operazione del genere, la vedo molto, molto difficile.

A volte, vi capita di captare informazioni che potrebbero essere di Intelligence, quindi utili al nostro governo e magari non poterle riferire perché, non essendoci legislazione chiara, quasi non esistete?

Ho letto quella parte di intervista in cui Biffani ne parla. Noi facciamo raccolta di Intelligence, non per il governo ma per noi, perché poi andiamo sul campo e dobbiamo sapere che cosa succede. Magari ad altri è capitato e se vogliono te lo raccontano, a me non ancora. Vero è che, in qualsiasi posti tu vai, cerchi di raccontare un certo tipo di informazioni, ma lo fai principalmente per te, perché vai fuori con il cliente e devi sapere cosa succede sul terreno. Però penso che lo Stato italiano, se vuole raccogliere informazioni, più che ai contractor si affidi ai suoi uomini, preparati appositamente. Può accadere che ci siano contractor che facciano solo quello, raccogliere informazioni, ma dipende in che Paese sei, che interessi hai o ha il tuo cliente, dipende da tante varianti. A me non è capitato, ma non lo escludo. Anche se non si può violare il codice professionale: se io ascolto qualcosa dal mio cliente – e di cose ne sento – è ovvio che le tengo per me.

Tu adesso lavori in Libia: come vedi la situazione per gli italiani che vogliono andare?

In Libia, per i prossimo 10 anni e oltre, ci sarà lavoro e ci sono tante ditte italiane che vogliono andare giù a far ripartire il business e, sicuramente, avranno bisogno di sicurezza. Però penso che ci siano dei limiti per gli italiani. E, in accordo con Biffani, è vero che oggi non c’è nessuna compagnia, in Italia, in grado di gestire grossi contratti, perché non ha i mezzi. Penso, però, che il giorno in cui ci sarà una compagnia italiana al livello di G4S o GardaWorld, quindi con i mezzi per gestire grandi numeri, andrà ad arruolare personale dell’Est europeo perché li paga meno. È sempre questo il limite. Inoltre, se oggi una compagnia ad esempio inglese, avesse bisogno di 200 italiani, farebbe molta fatica a trovarli, per quello che ti dicevo prima, per il limite delle lingue. E poi, oggi, è vero che le aziende italiane che lavorano all’estero stanno cercando di cambiare un po’ la mentalità e si sono accorte che hanno bisogno, al loro interno, di un dipartimento di sicurezza o di security manager. La ditta Bonatti è il caso limite più famoso che ha fatto scuola, in questo senso.

Cambio di mentalità oppure opportunismo?

Quello che penso io è che oggi si cercano i security manager, ma solo per “pararsi il culo” se ci fossero altri morti e non perché veramente hanno la consapevolezza che la sicurezza serve. Perché la mentalità delle aziende italiane, nei confronti della sicurezza, è sempre stata come un qualcosa di fastidioso che blocca l’attività. Ma non è così, se hai un security manager preparato. È per questo che io, come tanti altri colleghi, sto seguendo corsi ad hoc con istituti inglesi per prendere diplomi a livello 6, quello più alto, che ci certifichino in tal senso. Perché il futuro è quello, se vuoi rimanere nel giro, bisogna puntare alla formazione: studiare, diplomarsi e poi cercare lavoro come consulente in sicurezza. E il rischio con le compagnie italiane è che il security manager venga preso solo come parafulmine se un domani qualche dipendente dovesse morire. Perché oggi, come sai, per il processo in corso alla Bonatti, sono i top manager che rischiano il carcere. Un domani, con un security manager, sarebbe lui a prendersi tutte le responsabilità. L’ho visto in giro per il mondo, in Nigeria come ora in Libia. Gli imprenditori italiani erano sempre avversi a tutto, a chiedersi il perché si dovesse costruire un muro invece di tenere i cancelli aperti. Poi succedevano le rivolte e si rendevano conto che il cancello e il muro servivano. Penso che in Italia, per acquisire la mentalità e capire l’importanza di avere professionisti delle sicurezza che ti proteggono, ci voglia ancora un po’di tempo.

(foto: U.S. DoD / Sky TG24)