Operazioni militari all’estero e politica estera: tavola rotonda a Bologna

(di Enrico Baviera)
07/05/19

Si è parlato di Esercito Italiano, di operazioni all’estero e di molto altro, al seminario organizzato a Bologna lo scorso 3 maggio dal Centro Studi Storico Militari “Gen. Bernardini”.

Vi han preso parte alcuni fra i maggiori testimoni del lungo processo di trasformazione che ha contraddistinto la forza armata in questi ultimi 30 anni.

Con loro Toni Capuozzo, giornalista e scrittore, noto al grande pubblico per i tanti reportage e servizi dalle zone di crisi nelle quali operavano nostri soldati; l’Ambasciatore Guido Lenzi, diplomatico di lungo corso, già Rappresentante Nazionale all’OSCE, che attualmente si divide tra l’attività di insegnamento presso l’Università di Bologna e quella di scrittore; e Antonio Li Gobbi, generale di corpo d’armata, a più riprese impegnato all’estero come osservatore delle Nazioni Unite, comandante di truppe, e con incarichi di responsabilità nella branca “operazioni”: al Comando Alleato di SHAPE, al Quartier Generale dell’Alleanza e, non ultimo, come Sotto Capo Operativo di ISAF a Kabul.

A intervistarli un altro testimone d’eccezione: Gianandrea Gaiani, scrittore, direttore di Analisi Difesa e opinionista sulle principali reti televisive nazionali (Rai, Mediaset, La7 e SkyTg24), nonché firma consueta de Il Mattino, Il Messaggero, Libero e Il Corriere del Ticino.

Un’ora e mezza di dibattito serrato, aperto e laico, che ha preso in esame da diverse angolazioni l’evoluzione delle operazioni militari italiane all’estero.

Lenzi, cui è toccato il compito di iniziare il giro di tavolo, ha sottolineato come il crescente impegno dell’Esercito in tutti questi anni sia da ricondurre al progressivo impegno dell’ONU, favorito dalla fine del mondo bipolare.

Secondo il diplomatico, la strage di Srebrenica in Bosnia Erzegovina, e l’incapacità manifestatasi di offrire protezione alla popolazione locale , hanno costituito un momento di verifica che ha consentito di ripensare come rendere più efficiente l’impiego dello strumento militare sotto bandiera ONU, nei casi in cui si verificavano violazioni dei diritti umani e occorreva ricostruire le strutture di stati in guerra.

In tutti questi anni, per il diplomatico, l’Esercito Italiano in particolare e le Forze Armate in generale hanno risposto appieno alle sfide, pur mancando in alcuni frangenti, per colpe non proprie, del necessario collegamento tra ministero degli esteri e della difesa, perché "se è vero come è vero che la diplomazia ha bisogno delle forze armate, è altrettanto vero che le forze armate hanno bisogno della diplomazia”.

Li Gobbi ha contestualizzato le operazioni all’estero dell’Esercito nell’ambito di una prospettiva storica. Questo perché, a suo dire, le missioni non sono un portato della nostra storia recente, “ma una prassi consolidata dei governi del Regno d’Italia, come nel caso dell’intervento in Cina del 1901, durante la rivolta dei Boxer e quello, sempre in Cina del 19371. Successivamente, dopo la fine seconda guerra mondiale e precisamente con l’8 settembre, “l’intervento militare non apparve più “politicamente corretto”, poiché “privo della necessaria credibilità persa con il fallimento pro tempore dello Stato”.

Proprio per tale motivo - ha proseguito Li Gobbi - la nostra Costituzione, al primo comma dell’art. 112, ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie, e cede, nel prosieguo dell’articolo, parte della sovranità agli organismi sovranazionali, affermando così “la rinuncia a impiegare lo strumento militare al pieno delle sue potenzialità, anche diplomatiche”.

Nell’analisi del generale, quelli italiani finiscono così per diventare gli “interessi del sistema di alleanze di cui l’Italia fa parte", con il risultato che progressivamente “sbiadisce" la connotazione nazionale degli stessi.

Si dovrà aspettare il ministro Lelio Lagorio, negli anni 80, per una prima inversione di tendenza, che porterà a definire in maniera specifica gli interessi della Nazione, non necessariamente coincidenti con quelli delle alleanze cui ha aderito.

Con Lagorio, infatti, l’Italia svolgerà la prima missione in Libano (1982) cui seguiranno, negli anni successivi, quelle in Namibia, Mozambico e Somalia, con nello sfondo, lo sforzo tutto italiano di supplire con i “boots on the ground” all’incapacità di avanzare iniziative autonome di politica estera.

Anche Toni Capuozzo ha fatto partire il suo intervento da un evento storico, la caduta del muro di Berlino, all’indomani del quale si pensò addirittura a una nuova era dell’umanità portatrice di pace e prosperità3.

Sappiamo come è andata a finire, e abbiamo tutti memoria dei molteplici fallimenti che hanno contraddistinto in questi anni l’azione gli interventi dell’ONU”, ha affermato il giornalista. Che ha pure ricordato come l’Italia che giunge in Libano nel 1982 sia ancora quella “delle mamme preoccupate per i figli militari di leva, un’Italia che vivrà come una tragedia nazionale la perdita dell’unico caduto: il “marò Filippo Montesi” del quale, non per un caso, ci ricordiamo ancora il nome.

Capuozzo descrive l’Esercito Italiano come “una azienda che ha saputo cavalcare le crisi globale, uscendo a testa alta dalle tante sfide che ha affrontato”, nel corso delle numerose missioni internazionali.

Forza armata che è per tutti una garanzia, alla quale suggerisce per il futuro di “abituarsi a operare in contesti caratterizzati da grande volatilità della politica”, anche della politica estera: si pensi solo a quanto sta accadendo in Libia.

Capuozzo vede oggi l’Esercito come “una persona matura, che si deve attrezzare a confrontarsi con una classe politica che non ha prospettive di medio o lungo termine”. Espressione di un popolo che preferisce ancora rappresentare i militari con uno stucchevole buonismo, “come tanti Babbi Natale, scordandosi che quando c’è da combattere lo fanno e pure bene”.

Anche Gaiani concorda con la descrizione fatta dal collega, quando indica l’incapacità (invero di tutto il mondo occidentale) di sostenere perdite in combattimento, che ci spinge a “partecipare a operazioni dove non si combatte”, con compiti di combat service support (CSS) e di security sector reform (SSR), meglio digeribili da una opinione pubblica distratta e provinciale, poco adusa a temi di ampio respiro, che travalichino il “proprio particulare”.

Il calo continuo di finanziamento fa il resto, permettendo un addestramento completo, in linea con quello dei partner alleati, ai soli militari in predicato di andare all’estero.

C’è poi un aspetto su quale Gaiani sollecita una riflessione: quello della crescente minaccia interna, plasticamente rappresentato dagli oltre 7mila militari dell’Esercito impiegati nell’operazione “Strade Sicure”, numero quasi doppio rispetto ai commilitoni impiegato all’estero per la tutela della sicurezza “esterna”.

Ne esce, al termine del dibattito, il ritratto complessivamente positivo di uno strumento terrestre fondamentalmente sano per qualità di capitale umano e capacità di fare, costretto però a fare i conti con un “sistema Italia” rinchiuso su stesso, soprattutto se confrontato con i nostri naturali competitor.

E di una classe politica che veleggia a vista, incapace di formulare una politica estera coerente con il ruolo che spetterebbe alla penisola per storia, dimensioni e posizione geopolitica.

A confortarci rimane, guardando a quel che accade oltre Manica, l’amara consolazione di essere in buona e inaspettata compagnia.

1In occasione del conflitto sino-giapponese furono inviati, a difesa delle comunità italiane residenti, 1° battaglione del 10° reggimento Granatieri di Savoia e l’incrociatore Montecuccoli con un reparto di fanteria di marina.

2L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

3Il politologo statunitense, Francis Fukuyama, in un famosissimo articolo pubblicato da “The National Interest” - il più importante trimestrale di geopolitica USA - parlò addirittura di “fine della storia”, nel senso di un mondo inesorabilmente diretto verso il trionfo dei regimi democratici liberali e del capitalismo globalizzato.