Al MAXXI di Roma le immagini delle donne vittime dello Stato Islamico

(di Giusy Federici)
25/01/17

Fotografie che parlano di vita, in risposta alla violenza dello Stato Islamico e nonostante la condizione difficile di sfollate. Un bambino appena nato, sistemato alla meglio per terra. Ragazzi che scaricano cassette di frutta da un camion. Una madre che compra dolci per i figli, per riscoprire la bellezza della quotidianità. Ma anche pulizie di casa e preparazione del pranzo. Gli stessi giochi fatti a casa e ora ripetuti in quel campo profughi dai giovani, che sono il futuro e forse torneranno a casa. Quel futuro negato alla vecchia e malata Seyfi, che voleva lasciare questo mondo da dove è nata. È morta subito dopo lo scatto fotografico, da profuga. Come è morto Ghali che, dopo l’attacco dell’Isis a Sinjar, ha cercato di scappare in Germania con la moglie e i 5 figli. La vedova si è tagliata i capelli e li ha lasciati sulla tomba del marito, legati alla lapide abbracciata da un foulard.

In mostra fino al 29 gennaio al Museo nazionale delle arti del XXI° secolo Maxxi di Roma, le immagini scattate dalle ragazze yazide del campo profughi di Khanke, nella provincia di Duhok del Kurdistan iracheno, un evento voluto e finanziato dal Ministero della Difesa e dal Ministero Affari esteri.

L’esposizione è itinerante e il nostro è il primo Paese che la ospita. Il progetto di dare alle ragazze un’istruzione anche attraverso corsi di fotogiornalismo è internazionale, promosso dall’Unicef, in collaborazione con Research and Development Organization, organizzazione curda no profit.  Loro sono Samia Jendo,  Manal Barakat, Zina Hassan, Khawla Shamo, Klood Khedada, Bushra Qasim. Quella del Maxxi non è una rassegna come le altre, perché  fotografe e protagoniste al tempo stesso sono ragazze yazide dai 17 ai 20 anni che vivono in quel campo, che raccontano in prima persona, senza intermediari. E il messaggio arriva tutto, forte, senza sconti.

Loro sono scappate con le famiglie dalla regione di Ninive, in Iraq, quando i miliziani jihadisti sono arrivato a Sinjar e dintorni nel 2014 e hanno cominciato a uccidere, rapire, stuprare. Quella yazida è una comunità culturale e religiosa particolare, unica, antichissima. Ma anche tosta, è gente che non si fa piegare e questa mostra è un esempio della loro tenacia. Anche per questo l’Isis ha cercato di annientarli, radendo al suolo Sinjar, accanendosi particolarmente sulle donne e sui bambini, riducendoli in schiavitù, finché la città non è stata liberata dalle milizie curdo-yazide.

Così, 400mila persone hanno deciso che avrebbero lasciato tutto, dalle case ai vestiti, tutto ma non la dignità. Samia, Manal, Zina, Khawla, Klood, Bushra hanno vissuto l’orrore dei familiari uccisi, delle amiche stuprate o saltate su una mina. Quell’orrore è davanti ai loro occhi, ma hanno deciso di non arrendersi.  Oggi sono un esempio per la loro comunità, per quel campo che ospita oltre 17mila profughi. Belle nei costumi tradizionali, timide, con la macchina fotografica a tracolla, che in questo caso è un’arma che fa più rumore di un fucile. Di loro emancipazione, di libertà e futuro ha parlato il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che ha inaugurato la mostra. Roberta Pinotti, che ha conosciuto le ragazze e il campo profughi durante una visita al contingente italiano a Mosul, ha ribadito l’importanza delle nostre Forze armate e delle missioni all’estero per la lotta al terrorismo.

C’è un filo neanche tanto sottile intorno a queste ragazze, agli yazidi  e alla loro causa, dall’Italia al mondo curdo e iracheno in prima linea. Shayda Hessami è una giornalista curda che vive tra Erbil e Parigi, è stata il primo tramite tra le ragazze e tutti noi. “Ho avuto un primo incontro con le ragazze nel 2015, attraverso l’ONU e ho capito che bisognava fare qualcosa. Subito ho contattato l’Unicef e il rappresentante italiano: il miglior modo di far sentire all’Europa le loro voci era farle parlare in prima persona del loro mondo e contro la violenza, con la loro sensibilità, senza intermediazioni. L’Italia è il primo Paese ad aver capito l’importanza del progetto. Ma non sono io a dover parlare del mondo yazida, sono le ragazze che devono farlo, attraverso  i loro occhi e le loro parole”.

Sono vari i modi di combattere il terrorismo islamista e la sua barbarie. Qui, i veri guerrieri sono queste ragazze che si mostrano al mondo senza filtri, non i vigliacchi che si nascondono dietro il Corano. Le ragazze combattono l’Isis attraverso la fotografia, che è una forma d’arte. Quell’arte che le orde fondamentaliste del Califfato si preoccupano di distruggere ovunque arrivino e non solo per finanziarsi con la vendita clandestina dei reperti ma anche perché, evidentemente, la temono. Sanno che, insieme a un buon piano strategico di difesa, l’arte, che è bellezza e quindi vita, li seppellirà.

(foto: Ministero Difesa)