4 maggio: 156° anniversario della costituzione dell'Esercito Italiano

(di Matteo Acciaccarelli)
04/05/17

Il 4 maggio 1861 è una data fondamentale per l’Esercito Italiano, perché, con il Decreto del Ministro della Guerra Manfredo Fanti, quella che era l’Armata Sarda prese la nuova denominazione di Esercito Italiano: “d’ora in poi il Regio Esercito dovrà prendere il nome di Esercito Italiano, rimanendo abolita l'antica denominazione d'Armata Sarda”. I primi impegni del “neonato” Regio Esercito unitario furono difficili e travagliati: da una parte la lotta al brigantaggio nel sud del Penisola e, dall’altra, la Terza guerra d’Indipendenza. Proprio il contrasto al brigantaggio fu il “battesimo del fuoco” per i soldati italiani, difendere il Regno d’Italia dai sentimenti disgregatori covati da alcuni ambienti legati alla Corona dei Borbone fu un impegno importante e gravoso che venne assolto alla perfezione. Questo fece sì che l’Esercito venne visto come uno strumento dei Savoia per imporre con le armi una “colonizzazione” del sud.

Durante la Terza guerra d’indipendenza, a soli 5 anni dopo la sua creazione, subì una pesante sconfitta a Custoza, da parte delle truppe austriache. La sconfitta fece aumentare le critiche, anche se durante la guerra del 1866, il Regio Esercito, seppe dimostrare il suo valore: prima dell’armistizio con il governo di Vienna, le truppe italiane riuscirono ad arrivare sino alla provincia di Gorizia, in concomitanza con la disfatta austriaca nella battaglia di Sodowa/Königgrätz. Solo la sconfitta navale a Lissa della Regia Marina e la firma dell’armistizio negarono al Regio Esercito la gloria di varcare il confine naturale delle Alpi con l’impero austriaco. Sfortunatamente, però, nella memoria collettiva rimase ed è rimasta solo la sconfitta di Custoza, ma nella stessa memoria rimane anche un’operazione vittoriosa e decisiva del Regio Esercito, la presa di Roma, quando il 20 settembre 1870, le truppe del IV Corpo d’Armata del generale Raffaele Cadorna entrarono a Roma, consegnando a Vittorio Emanuele II la Capitale del Regno. Ma anche in questo caso i detrattori non mancarono, accusando le truppe di essere entrate a Roma solo perché non c'erano le truppe francesi, le quali erano tornate in patria per difendersi dall’invasione prussiana. Una storia, quella del Regio Esercito nella parte finale del Risorgimento, che fu travagliata e contestata da più parti.

La presa di Roma permise al Governo italiano di organizzare in maniera più efficiente l’esercito, modellandolo su quello che era considerato il modello vincente, ovvero quello della Prussia. L’Ordinamento Ricotti del 1873, che prese il nome dal Ministro della guerra, generale Cesare Ricotti Magnani, prevedeva proprio questo: organizzare il Regio Esercito sul modello della Preußische Armee (Esercito prussiano), modificando il sistema di reclutamento ed abbassando il periodo di leva dai 5 ai 3 anni, creando così un grande bacino di riservisti da cui attingere in caso di necessità. Ma non era l’unica miglioria, perché vennero anche riorganizzati i Corpi d’Armata, costituendone 10, create le prime 15 compagnie alpine, con reclutamento solo nei distretti montani, e modernizzati sia gli equipaggiamenti sia l’armamenti. La più importante delle riforme militari fu vana però di fronte alla pesantissima sconfitta di Adua (immagine a dx), nel 1896, che gettò sul Regio Esercito ancora discredito da parte dei settori pacifisti ed antimilitaristi dell’Italia e un perenne senso di accerchiamento nei comandi militari.

La “prima” gioia per l’Esercito venne con la guerra di Libia, dove riuscì a scrollarsi di dosso l’etichetta di perdente, sconfiggendo a più riprese l’esercito ottomano ed arrivando ad occupare il Dodecaneso e la regione del Fezzan. Una vittoria che diede morale al Regio Esercito in vista di un crocevia che fu importantissimo per la storia d’Italia, dell’Europa e del Mondo: la Prima guerra mondiale.

Il 24 maggio 1915 le truppe dell’Esercito, varcando i confini dell’Impero austro-ungarico, entravano anche loro, con un anno di ritardo rispetto agli altri paesi europei, nella Grande Guerra. Una guerra che fu all’insegna della mobilitazione generale e della modernizzazione, con la nascita di corpi speciali, con il potenziamento dell’arma aerea e con l’introduzione dei primi, rudimentali, mezzi meccanici. Dal maggio del 1915 all’ottobre del 1917 l’Esercito italiano si stanziò sull’Isonzo ad est e sulle Alpi venete e trentine, per quella che è conosciuta come la Guerra bianca. Di fronte alle truppe italiane però si stagliò “uno dei più potenti eserciti del mondo”, citando il generale Armando Diaz, e la guerra divenne, anche sul fronte italiano, di trincea e, questo, è ben visibile dal numero spropositato di battaglie dell’Isonzo, ben 17, di cui solo due furono veramente decisive ed importanti, ovvero la sesta, che permise alle truppe italiane di entrare a Gorizia, e la diciassettesima, combattuta nell’ottobre del 1917, ovvero la sconfitta di Caporetto. Ma in quest’occasione, però, l’Esercito seppe organizzare un’accanita resistenza sulle rive del Piave e sui pendii del monte Grappa, stabilizzando il confine tra gli eserciti contrapposti. Mentre il 1917 può essere considerato un annus horribilis per il Regio Esercito, il 1918 può tranquillamente essere chiamato anche annus mirabilis, perché coincise con le due battaglie decisive che sfondarono la linea avversaria: la battaglia del solstizio e quella di Vittorio Veneto. L’ultima segnò anche la fine delle ostilità e la resa degli imperi centrali all’Italia.

Il contributo di sangue dato dall’Italia fu impressionante contando circa 600mila morti al 4 novembre 1918, un contributo fondamentale per la definitiva sconfitta degli Imperi. La fine della guerra, però, segnò anche la smobilitazione e la ripresa dei sentimenti antimilitaristici in buona parte del pensiero italiano, di chi si chiedeva a cosa servisse mantenere in piedi un esercito ora che non ci sarebbero state più guerre e proprio all’interno del Regio Esercito si crearono le prime defezioni anti parlamentari, quando alcuni militari, che avevano combattuto nelle fila degli Arditi, parteciparono all’impresa di Fiume (foto). L’avvicinamento con i movimenti nazionalisti ed i sentimenti di rivalsa verso i socialisti, portarono molti militari a combattere la stessa battaglia del Fascismo. L’ascesa di Mussolini e il regime fascista mutarono il quadro dell’Esercito, al quale venne dato il compito di formare “l’Italiano Nuovo” coadiuvato dalle milizie fasciste, ma nello stesso tempo visse un periodo di profonda riforma e di modernizzazione, penata però dalla poca produzione industriale italiana e dai pesanti effetti economici derivati dalla guerra d’Etiopia.

La guerra d’Etiopia vide l’Esercito in prima linea a combattere per conquistare l’ultima porzione di terra africana rimasta libera dalla colonizzazione, cosa che riuscì il 5 maggio 1936. Non passarono neanche sei mesi e lo stesso Esercito venne chiamato in causa, tramite l’invio di volontari, nella guerra civile spagnola. Il contributo dato in queste due guerra dall’Esercito fu importante, ma provocò un ritardo cronico ed incolmabile, con le altre potenze europee, nello sviluppo tecnologico, ritardo che divenne lapalissiano con la seconda guerra mondiale. L’idea di intraprendere una guerra parallela a quella del Terzo Reich fu subito smentita dalle sconfitte in Grecia ed in Africa Settentrionale, senza contare la disfatta, quasi immediata, in Africa Orientale. Il totale assoggettamento nelle scelte politico-militari alla Germania Nazista mise il Regio Esercito su un piano per certi versi inferiore a quello della Wehrmacht, ma anche in questo caso lo sforzo compiuto dai soldati italiani fu impeccabile e, in alcuni casi, eroico. Fu eroico quando, durante la ritirata di Russia del 1943, lo sforzo dei militari italiani permise alle truppe dell’ARMIR di uscire dalla sacca che era stata creata dall’Armata Rossa e di rientrare in Italia, lasciando dietro circa 80mila tra caduti e prigionieri. La forza mentale dei soldati italiani, però, era stata già notata dal feldmaresciallo Erwin Rommel che aveva elogiato le truppe italiane impegnate nella battaglia di El Alamein.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 segnò la più grande delle sconfitte per l’Esercito, ma non minò il morale dei soldati e degli ufficiali che, dopo un periodo difficile dovuto alla carenza di comandi, organizzarono la Resistenza militare alle truppe tedesche che avevano invaso da nord la Penisola. La creazione del 1° raggruppamento motorizzato costituì la rinascita del Regio Esercito e la sua riscossa vittoriosa nella risalita della Penisola al fianco delle truppe Alleate. Ma oltre che combattere nell’Esercito cobelligerante molti militari italiani si arruolarono, nel nord del paese e nei Balcani, nelle divisioni partigiane, dando un apporto fondamentale per la Liberazione dell’Italia.

La fine della Seconda guerra mondiale segnò un altro pesante tributo da pagare, dopo quello di sangue della guerra, ovvero quello dell’imposizione della struttura futura dell’Esercito Italiano da parte della Missione Militare Alleata in Italia. La direttiva emanata dal Comando alleato portò, nel marzo 1946, alla prima normativa organica del dopoguerra, la quale prevedeva: 11 Comandi Militari Territoriali, alle dipendenze del futuro Ministero della Difesa, da cui dipendevano le unità, la logistica, le amministrazioni distrettuali e i centri di addestramento delle reclute. Le divisioni militari vennero create ad hoc, sfruttando le grandi unità già presenti o costituendone delle nuove con compiti sia, ricostituendo tutte le Armi storiche dell’Esercito, mentre in un secondo momento anche l’Arma di Cavalleria venne ricostruita assegnandole, però, solo il compito di operare come esploratori per ogni divisione di fanteria. Questo permise all’Esercito Italiano di arrivare preparato sia alle clausole del Trattato di Pace del 1947 sia all’ingresso nella NATO, nel 1949.

La NATO divenne la pietra angolare della politica militare italiana, spostando l’attenzione italiana sulla difesa dei confini nazionali da un’ipotetica invasione sovietica ed avviando l’Esercito Italiano ad una mentalità sempre più interforze e sempre più volta all’intervento umanitario prima in terra italiana, come nel caso di calamità naturali, poi in terra straniera. Proprio in terra straniera l’Esercito ha avuto la sua prima missione armata dalla fine della guerra, quando venne inviato in Libano, dal 1980 al 1982, con lo scopo di far mantenere la pace, guadagnandosi sul campo il rispetto degli Stati Uniti. Con la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, le missioni di peacekeeping sono diventate la base di ogni missione all’estero dell’Esercito Italiano, operando in tutto il mondo a questo scopo. Gli ultimi anni, invece, hanno visto la trasformazione maggiore dell’Esercito, cominciata con la separazione dall’Arma dei Carabinieri e con la soppressione della leva militare, diminuendo di molto la lista degli effettivi dell’Esercito permettendo, così, una riforma ancora in corso che lo trasformerà in uno strumento agile e snello di intervento rapido nelle missioni internazionali. Proprio le missioni internazionali sono state la via seguita negli anni 2000, cominciando con l’Iraq e l’Afghanistan, proseguendo poi per la Libia e nuovamente, ora, nella missione fondamentale a difesa della diga di Mosul in Iraq.

Sono quindi, oggi, 156 anni dalla fondazione di questa Forza Armata che nel tempo ha visto trasformare i suoi compiti e la sua organizzazione interna, ma che è riuscita sempre a rimanere “sul pezzo” senza perdere la sua identità e la sua capacità operativa.

(foto: web / ministero della difesa)