Siria, parola d’ordine: disinformazione

(di Giampiero Venturi)
21/09/16

Rimaniamo su un piano oggettivo: in Siria c’è un governo, piaccia o non piaccia, legittimo e internazionalmente riconosciuto.

La seconda cosa di per sé non garantisce la prima ed è bene a questo proposito fare una puntualizzazione. Esistono molti governi che ottengono il “benvenuto” formale della comunità internazionale ma per una questione o l’altra rimangono nel limbo della legittimità giuridica. È spesso il caso di nazioni nuove, nate da traumi politici come scissioni, autoproclamazioni o rimescolamenti amministrativi. Il Kosovo è l’esempio geografico a noi più vicino: a fronte di un’identità accettata da alcuni, altri soggetti continuano a non riconoscerne l’esistenza.

Nel caso della Siria parliamo d’altro. La legittimità del governo di Damasco è in sé e trova fondamenta sulle regole interne, a loro volta basate sul principio di sovranità. Con ciò è evidente che il riconoscimento del governo di Assad rientri nella sfera degli orientamenti politici dei singoli membri della comunità internazionale. Almeno fino a quando non esisterà un “tribunale dei governi” globale che stabilisca cosa sia ammissibile nel consesso delle nazioni e cosa no.

Sotto il profilo giuridico non esistono al mondo istituzioni capaci di misurare i contenuti di democrazia dei singoli Stati sovrani. Esistono tutt’al più le Nazioni Unite, che attraverso risoluzioni possono esercitare pressioni sulla base di principi, senza avere però il potere di entrare negli affari interni di ciascuno.

La deroga a queste linee guida in passato è stata permessa per contenere disastri umanitari. La comunità internazionale ha deciso cioè d’intervenire all’interno di un Paese sovrano per arginare violenze ritenute inaccettabili in nome dei diritti dell’uomo e del buon senso. L’unico modo per poterlo attuare è stato servirsi degli Stati in grado di garantire i mezzi sufficienti allo scopo. Qui casca l’asino. Proprio su questo nodo s’intrecciano gli interessi di parte con quelli collettivi in modo che non sempre sia possibile distinguerli.

Facciamo tre esempi:

- nel 1992 viene istituita UNOSOM per soccorrere le popolazioni della Somalia. Nel 1993 la missione si trasforma in UNITAF (meglio conosciuta come Restore Hope), in sostanza una delega agli Stati Uniti per gestire la guerra umanitaria nel Corno D’Africa;

- la storia si ripete nei Balcani tra il marzo e il giugno 1999 con Allied Force, con cui è la NATO stavolta a incarnare il “comune sentire” dell’opinione pubblica mondiale, intervenendo unilateralmente in Serbia;

- in Ruanda nel 1994 accade il contrario. Nonostante 1 milione di morti, nessuno ritiene opportuno muovere un dito. Il genocidio non è sufficiente a forzare le velleità umanitarie del mondo civile. 

Se a livello internazionale non esiste un principio chiaro e assoluto che autorizzi qualcuno a usare la forza per redimere le questioni interne di qualcun altro, come si può ottenere allora una legittimazione universale all’intervento armato?

La domanda è retorica. Il sistema è sempre lo stesso: influenzare e orientare l’opinione pubblica globale in modo che un intervento sia considerato non solo legittimo ma anche benvenuto.

Ciò a cui assistiamo in questi giorni riguardo le informazioni sulla guerra in Siria rientra esattamente in questo schema. La percezione che il main stream mediatico tenda a forgiare le menti del “popolino ignaro” attraverso il rimbalzo di notizie di parte, risulta a dir poco disgustosa.

La concentrazioni di eventi nel giro di poche ore è incredibilmente sospetta. Dopo “l’incidente” del bombardamento alleato contro postazioni dell’esercito siriano, è partita la giostra del contrappeso.

Il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon parla al Palazzo di Vetro chiamando Assad “criminale”. Prove sul coinvolgimento di Damasco nell’attacco al convoglio ONU di lunedì però non ne fornisce.

Dallo stesso pulpito parla Obama, che alla fine di un decennio catastrofico, trova la coerenza per puntare il dito contro l’uso della forza da parte di Mosca. Lo speech è parallelo alla storiella del bue che ricorda all’asino l’infedeltà della moglie.

Tutti i mezzi d’informazione occidentali risaltano i due passaggi oltremisura con uso del glossario sempre mirato (regime al posto di governo ad esempio…). Il televideo della TV pubblica italiana li lascia addirittura per 36 ore in prima pagina e a nove colonne.

Nessuno viceversa sottolinea che la cosiddetta Coalizione anti ISIS operativa in Siria non è mai stata autorizzata da Damasco e che l’Osservatorio dei diritti umani, fonte di riferimento per l’Occidente, è in realtà portavoce del fronte ribelle. Nelle stesse ore tornano a girare su youtube video di qualche anno fa in cui si mettono in evidenza violenze e soprusi da parte dei lealisti siriani.

C’est la guerre potremmo dire. Ovvio: nessuno può essere tanto ingenuo da ignorare che i Paesi con maggior peso politico ed economico esercitino influenza sugli altri per ottimizzare i propri interessi. Pur nella consapevolezza di questo, alcuni dati oggettivi non dovrebbero essere trascurati per non scadere nel ridicolo.

In Siria, come già accennato in testa, un punto va considerato inoppugnabile: c’è un governo eletto e riconosciuto; spetta ai siriani secondo le modalità previste dal proprio ordinamento giuridico, stabilirne la continuità o la destituzione.

Nella guerra che lacera milioni di vite ormai da sei anni, esistono attori legittimati da una formale investitura (il governo di Damasco e gli alleati chiamati a soccorrerlo) ed esistono attori non autorizzati da nessuno. Giornali, tv, web e istituzioni tacendo su questo punto fondamentale, non solo omettono delle verità, ma contribuiscono ad allungare la lista di arbitrii e soprusi messi in atto nel nome della giustizia e della libertà.

Sia chiaro e lo diciamo al riparo da orientamenti editoriali e simpatie. Nessuno in buona fede può assolvere il potere alawita degli Assad da alcune colpe e responsabilità. Il plagio ideologico attuato attraverso la disinformazione di questi giorni però, sembra lontanissimo da ogni fine umanitario chiamato in causa.

(foto: ONU)