Italia: verso la rinuncia ad una Difesa nazionale

(di Paolo Palumbo)
15/11/18

Il 2 settembre 1945, a bordo della corazzata americana USS Missouri l’Impero del Sol Levante siglava la resa incondizionata di fronte ad un compiaciuto generale Douglas MacArthur, comandante dell’esercito in uno dei settori del fronte più complessi e sanguinosi della seconda guerra mondiale. Dopo due bombe atomiche e la conseguente dimostrazione di una potenza letale impressionante, gli americani piegarono la ferrea volontà dei giapponesi i quali si prepararono ad un seppuku nazionale subendo l’occupazione militare e delle imposizioni post-conflitto ancor più vergognose dell’atto di resa.

La volontà del presidente Truman era quella di minare il Sol Levante non solo moralmente, ma soprattutto militarmente costringendolo a rinunciare di fatto ad un esercito combattente. Il coriaceo generale MacArthur fu nominato comandante del Supreme Command of Allied Powers (SCAP) con il quale avviò il progetto per una ricostruzione – secondo gli schemi americani – del Giappone: il comparto della difesa fu inizialmente il più penalizzato poiché alle spese militari fu concesso l’investimento del misero 1% del PIL, il che significava la rinuncia ad una difesa nazionale. A tutti gli ufficiali che servirono l’imperatore fu tassativamente proibita la partecipazione alla politica e dal 1947 le bozze di una nuova costituzione privarono Hirohito di molte delle sue prerogative in campo militare. Solo una decina di anni dopo gli americani cambiarono rotta, soprattutto in funzione anti comunista, iniziando a riequipaggiare nuovamente le cosiddette Forze di Autodifesa giapponesi, accettandone una risalita lenta, ma progressiva.

Riarmo e disarmo

Il disarmo dell’apparato militare di uno stato sovrano è solitamente una delle conseguenze di una guerra perduta: così fu per la Germania degli Hohenzollern nel 1918 e lo stesso toccò al Giappone e alla Germania hitleriana nel 1945. Successivamente al clima di tensione instauratosi con la Guerra Fredda, gli Stati Uniti avviarono un processo economico globale che avrebbe risollevato le sorti degli eserciti sconfitti, Italia compresa. La situazione italiana era una delle peggiori, poiché la distruzione dell’esercito era già iniziata dopo l’8 settembre del 1943: una ferita specialmente morale che paghiamo, senza ragione, ancora oggi. L’onta subita dall’esercito sabaudo, compromesso con il fascismo, fu così grave che dopo il 1945 indossare le stellette diventò sinonimo di vergogna e anche senza i problemi legati alla crisi economica, i soldati stavano lentamente cadendo nell’oblio.

Ad un certo punto la politica di Washington, proiettata verso una strategia globale più lungimirante, capì quanto un eventuale rafforzamento dell’Italia sulla scena internazionale fosse considerevole, data la sua posizione di “baluardo” alle spinte del blocco sovietico. Da quel momento in poi il nostro esercito iniziò una decisiva risalita, che trasformò – grazie ai finanziamenti americani e alla volontà e coraggio espresso da pochi ufficiali italiani – il volto delle Forze Armate sia in patria, sia rispetto gli alleati del nuovo Patto Atlantico.

Superato il trauma del 1945 e digerita la decadenza della monarchia, l’esercito e il neoeletto parlamento italiano convolarono a nozze, istituendo una relazione di lunga durata, devota, ma non scevra di complicazioni. Parte della politica italiana difendeva un ottuso antimilitarismo, arroccata sugli avvenimenti dell’8 settembre e stizzendosi di fronte alla crescita delle Forze Armate. L’Italia ripudia la guerra – recita la costituzione – ciò nondimeno è sempre stato palese come quell’articolo abbia sovente fornito un alibi per una vergognosa incompetenza in materia di politica estera.

Lo sviluppo dell’esercito nato dalle macerie del dopoguerra, poggiava sull’afflusso dei coscritti che costavano all’erario statale un esborso esagerato; ci vollero diversi anni affinché storia, tradizioni e un certo tipo di educazione fossero depennate quando, nel 2002, il governo decretò la sospensione della coscrizione. Giusto o sbagliato che fosse, l’Italia decise di conformarsi ad altri paesi della NATO, dotandosi di un esercito inferiore numericamente, ma agile, moderno e progredito dal punto di vista tecnologico e addestrativo. Dagli anni Ottanta in poi l’Italia aveva iniziato ad assumere un ruolo sempre più sostanzioso nel panorama internazionale, specialmente riguardo le nuove tipologie di missioni alle quali fu chiamata; dal Libano in poi le Forze Armate ampliarono il loro raggio d’azione con missioni all’estero imposte dalle Nazioni Unite o dall’alleato americano.

Con l’uscita dei militari dai confini nazionali, emerse però in tutta la sua vergognosa ipocrisia la vera natura del rapporto tra governo/esercito/opinione pubblica. Con una propaganda mendace, degna del più becero MinCulPop, il parlamento operò sempre per ammansire il ruolo dei militari italiani secondo convenienza, negandone il valore e mistificando il senso delle missioni svolte.

Se la rottura fosse rimasta confinata alla mera comunicazione, forse non sarebbe stato così grave, tuttavia con il trascorrere degli anni il governo (di qualsiasi colore politico) fece di più e ancora oggi si prodiga affinché le Forze Armate vengano gradualmente private di quelle risorse necessarie al loro funzionamento.

Decurtazione, burattini e strette di mano

Se leggiamo i dati di bilancio pubblicati dal Servizio Studi della Camera dei Deputati su quello che è stato il trend d’investimento statale nel comparto militare (v.link), possiamo realmente pensare al Giappone del dopoguerra. Il grafico inerente al rapporto spese per la difesa/PIL, dal 2008 al 2018, evidenzia una linea decrescente che fa oscillare i valori tra l’1,19 e l’1,40 %, una percentuale dunque decisamente punitiva. Quello che desta maggiore stupore, ma anche preoccupazione, è la suddivisione delle spese, ed in particolare quelle relative alla funzione difesa che assomma il settore personale, esercizio e investimento. Il personale assorbe il 73% di questa voce, mentre l’esercizio appena il 10%.

Ma cosa significa esercizio? Nel settore esercizio – e citiamo parzialmente il testo del Servizio Studi – la Formazione e Addestramento è certamente la definizione più importante poiché include “le risorse necessarie a sviluppare e mantenere le specifiche capacità d’intervento del personale della Difesa”. Seguono, non per importanza, la Manutenzione e il Supporto, il Funzionamento di Enti e Unità, le Provvidenze e la Esigenze Interforze. Dal 2008 al 2018 – cita sempre il testo – si è arrivati ad un taglio complessivo nel settore esercizio del 47% con una conseguente riduzione del personale oltre ad accorpamenti di competenze certe volte poco azzeccate.

Ma allora, ci chiediamo, se lo stato impiega la maggior parte delle risorse per pagare il personale (fatto di cui si sono sempre lamentati tutti) e diminuisce le spese per l’esercizio delle sue funzioni, non genera uno strano controsenso? È da queste incertezze che nascono le barzellette e le stupidaggini che spesso partono dalla bocca degli stessi politici i quali scherzano – in modo ignobile – sul presunto tempo buttato via dai militari in caserma.

Alla luce di quanto riportato nella statistica elaborata dal Servizio Studi, ci chiediamo quale sia davvero il futuro delle nostre Forze Armate e se davvero vogliamo continuare ad averle oppure preferiamo metterle in naftalina una volta per tutte. Sarebbe ora di finirla di enfatizzare operazioni come “Strade sicure” o l’impegno dei militari a salvaguardia della zona rossa di Ponte Morandi: la storia – basta leggerla – insegna che l’esercito deve essere solo occasionalmente e in casi davvero eccezionali impiegato in funzioni normalmente svolte da altri enti. Si crea un cortocircuito su quelle che sono i compiti di un soldato i quali possono certamente essere utili alla società, ma non per questo devono causare uno stravolgimento della sua originale essenza di combattente. Non c’è nulla di male nell’assistere a militari che aiutano la popolazione, ciò nondimeno è pericoloso confinarne l’immagine solo a quello. Godiamo e applaudiamo alla parata del 2 giugno (sulla quale ci sarebbe molto da dire), ma forse i nostri ragazzi in uniforme piacciono solo in quella circostanza quando sfilano insieme a chi militare non è.

Assistiamo così, inermi, alla negazione concettuale della funzione statale di Difesa con un’operazione che parte dalla scandalosa messa in scena di filmati edulcorati con protagonisti che rasentano il grottesco, a generali che stringono la mano a manichini fino alla più grave privazione di denaro per uno sviluppo coscienzioso e certamente non guerrafondaio del settore. A Roma le cose sono rimaste cristallizzate dalla seconda guerra mondiale: generali proni e docili al comando, poco lucidi e preoccupati maggiormente delle loro carriere che alla salvaguardia della dignità di soldati.

"I militari non fanno politica", è un assunto sacrosanto, il loro ruolo istituzionale li condanna ad un silenzio/assenso verso tutte le decisioni prese dall’alto, ma quando viene toccata l’essenza del loro mestiere non possono e non devono continuare a rimanere zitti. Esistono finanche supporti per esprimere le proprie critiche che non per forza conducono al golpe: l’opinione non è un reato, sempreché il tacere non porti qualche vantaggio personale, allora la volontà di dire il vero può opportunamente essere taciuta. Sorprende poi quando molti di questi, una volta pensionati, si trasformino in una fonte di dissenso disordinata che oramai non serve più a nulla.

Tanto poi all’estero non ci vanno gli alti comandi, se non per fugaci visite accompagnati da una schiera di omuncoli in giacca e cravatta e asserviti analisti che dicono ciò che vogliono gli altri.

Ma non è storia di oggi, bene inteso, è storia di sempre, di quel malcostume italiano dal quale non riusciamo a svincolarci, ad esclusione di pochi idioti che scelgono di dire la verità.

(foto: web / Difesa / Presidenza del Consiglio dei Ministri)