Il rapimento: una minaccia jihadista destinata a continuare

25/09/14

La minaccia del rapimento di personale occidentale da parte di gruppi eversivi islamici ha sempre rappresentato un elemento di forza per i gruppi terroristici internazionali per esercitare un’azione ricattatoria sul piano politico nei confronti dei Paesi di origine del rapito e soprattutto per garantirsi le risorse economiche per portare avanti la jihad.

La storia recente ci riporta che l’obiettivo privilegiato del “rapimento per scopi eversivi” sono gli operatori volontari delle ONG ed i giovani giornalisti freelance che percorrono i territori di guerra. Giovani motivati da scopi umanitari i primi ed i secondi dall’aspirazione di poter fare lo scoop della propria vita che rappresenti il trampolino di lancio per le future attività professionali.

Peraltro, costoro, nella quasi totalità dei casi, arrivano sul campo privi di una preparazione specifica sul concetto di sicurezza e su come “leggere” gli indicatori di situazione per ridurre al minimo il rischio di rapimento.

Ma non solo i giovani rappresentano l’obiettivo, ma anche “firme del mondo dei media” che azzardano senza tener conto degli avvertimenti che possono giungere dalle varie fonti locali come avvenuto, anche recentemente, in Afghanistan, in Iraq ed in Siria.

L’ISIS, nonostante possa fare riferimento su enormi risorse economiche ricavate dalla vendita e raffinazione di contrabbando del petrolio, sta dimostrando di prediligere il ricorso al rapimento come termine di ricatto nei confronti dell’Occidente e di alcuni Paesi anche islamici. Nell’ultima settimana vari episodi lo confermano.

Il 20 settembre ha rilasciato 49 diplomatici turchi che aveva rapito a Mosul in Iraq in cambio di prigionieri appartenenti alle forze dei militanti islamici.

Il 22 settembre Jund al-Khilifah, un gruppo che si è distaccato da al Qaeda nel Maghreb islamico per unirsi allo Stato islamico ha rapito nella regione della Cabilia algerina il cittadino francese Herve Gourdel (foto). Due giorni dopo il 24 settembre l’ostaggio è stato decapitato ed il video dell’esecuzione diffuso su Internet.

Sempre il 22, l’ISIS ha costretto un altro ostaggio, il britannico John Cantlie, a criticare in un video messaggio la politica USA nei confronti dello Stato islamico.

L’uccisione degli ostaggi sta dilagando. Non soltanto l’ISIS ma anche altri gruppi estremisti stanno dimostrando di non voler scegliere la strada del compromesso ed uccidono i loro ostaggi qualora non vengano pagati i riscatti. Il 23, il governo tedesco ha confermato la morte di due operatori umanitari cristiani e del loro giovane figlio che erano stati rapiti nel 2009 nel nord dello Yemen.

Nello stesso giorno è stato rilasciato dopo il pagamento di un riscatto, il giornalista tedesco-americano Michael Scott Moore che era stato rapito in Somalia mentre sviluppava un’indagine giornalistica sul fenomeno della pirateria marittima.

Sempre il 23 settembre il gruppo jihadista filippino Abu Sayyaf ha comunicato che due ostaggi tedeschi nelle loro mani saranno giustiziati entro 2 settimane se la Germania non pagherà un riscatto di 5,6 milioni di dollari e non interromperà l’appoggio agli USA nella lotta contro l’ISIS.

In soli tre giorni, quindi, si è avuta la conferma che la tecnica del rapimento è ”pagante” per i gruppi jihadisti e che per questo non si fermeranno. Il sequestro, invece, sarà destinato a crescere con una scelta di obiettivi sempre più remunerativi, privilegiando, comunque, gli operatori delle ONG, i giornalisti o i semplici turisti.

Un fenomeno che dura almeno da due decenni, da quando nel 1991 furono rapiti due ingegneri da Jihadisti del Kashmir, atto che segnò l’inizio di una lunga serie di rapimenti. In Algeria, Niger, Libia, Mauritania, Mali, Kenya, Nigeria, Camerun, Somalia, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Yemen, Pakistan, Afghanistan, Malesia e Filippine i sequestri di persona diventarono ricorrenti, assicurando ai gruppi terroristici risorse economiche per milioni di dollari da utilizzare per finanziare le loro attività eversive.

Il rapimento di ostaggi rappresenta una delle maggiori fonti di guadagno per queste organizzazioni e garantisce consistenti risorse economiche che nel tempo ripianano il diminuito flusso di denaro proveniente da enti di beneficenza islamici e ricchi donatori dell’Arabia Saudita, dello Yemen e del Kuwait. Donazioni ridotte quasi a zero dopo la morte di Bin Laden ed il più attento controllo dei movimenti di denaro da parte dell’Intelligence occidentale.

La risorsa del riscatto è quindi attualmente la principale fonte di sostentamento in particolare per i gruppi minori in procinto di allearsi con l’ISIS. Lo ha confermato recentemente il leader di al Qaeda nel Maghreb islamico, al-Wahayshi, che ha ammesso di aver speso 20 milioni di dollari in un anno (2011-2012) per sostenere i costi della “lotta”, garantiti dai bottini di guerra di cui il 50% proveniente dalla gestione di ostaggi.

Gli ostaggi stranieri rappresentano, quindi, un vero e proprio “tesoro” per i gruppi jihadisti che si avvalgono per la loro cattura anche di gruppi minori non strettamente legati all’organizzazione terroristica. In Yemen, nello Sahel ed in Siria, infatti, la malavita locale è molto attiva nel catturare e poi vendere ostaggi ai gruppi jihadisti dietro modesti compensi.

Nel Sahel, ad esempio, i gruppi eversivi di al Qaeda sono in stretto collegamento con i Tuareg e altri banditi che operano nella regione, così come avviene per i militanti di Ansar Al Sharia in Tunisia e Libia. La tecnica del rapimento è applicata anche da altri gruppi difficilmente controllabili come i jihadisti filippini che operano in tutta la regione Sulu. Marinai esperti e in grado di muoversi agevolmente ed operare con successo in alcune aree delle Filippine, della Malesia e dell’Indonesia.

La minaccia del rapimento non è, quindi nuova ed è destinata ad estendersi fuori dei confini delle aree a rischio fino ad oggi conosciute. Un pericolo che forse rappresenta una delle prossime minacce da affrontare e sconfiggere per raggiungere risultati certi e rapidi nella lotta al terrorismo internazionale ed al Califfato.

E’ prioritario, quindi, concordare a livello internazionale che tutti coloro che intendono raggiungere le aree di contingenza per scopi umanitari come gli operatori delle ONG, per affari o per raccontare al mondo le atrocità commesse dai “combattenti nel nome di Allah”, per essere accreditati o autorizzati ad entrare nelle aree a rischio dovrebbero essere addestrati prima di partire a riconoscere i segnali del pericolo e ad adottare le contromisure necessarie a garantire un minimo di sicurezza personale.

Un corso formativo standardizzato e regolato dalle Nazioni Unite con procedure operative comuni (Standard Operative Procedures - SOP), alla stessa stregua di come si procede nel settore dell’informazione delle popolazioni locali costrette a convivere con il pericolo di Ordigni Bellici Inesplosi (UXOs) lasciati sul terreno dalla battaglia.

Addestramento finalizzato in particolare a riconoscere gli “indicatori” del pericolo e ad applicare risposte adeguate nel rispetto di procedure standardizzate, in modo da abbassare notevolmente il rischio di rapimenti.

Troppo spesso, infatti, il pericolo non è conosciuto o è sottovalutato dagli operatori che di fatto rappresentano “merce di scambio preziosa” per le organizzazioni eversive per ricattare le nazioni di appartenenza e di fatto ottenere che si trasformino in “donors” dell’eversione islamica per ottenere il rilascio degli ostaggi.

Fonti di finanziamento peraltro non palese e difficilmente rintracciabile e tale da garantire all’ISIS ed alle varie organizzazioni estremistiche le necessarie risorse per continuare a minacciare la sicurezza internazionale.

Fernando Termentini