Il falso problema del Brennero: il tabù della frontiera

(di Giampiero Venturi)
01/06/16

La Convenzione di Schengen del 1990 prevede la libera circolazione di cittadini dell’Unione Europea e di Paesi terzi all’interno dello spazio dei 26 membri firmatari. In sostanza altro non è che l’abolizione delle frontiere fra gli Stati aderenti.

L’accordo sottintende due grandi assiomi: in uno spazio geografico predefinito c’è libera circolazione di persone; tutto ciò che circola in un Paese aderente, circola automaticamente anche negli altri.

Questo secondo passaggio implica un’enorme assunzione di responsabilità. Come in poche altre occasioni nella storia dell’Unione Europea, il concetto di unione tra popoli ha avuto la possibilità di prendere forma sotto il profilo politico, economico e sociale: ciò che riguarda l’umanità di uno Stato membro ha riflessi sul vicino, con cui condivide non solo un’idea ma anche uno spazio fisico definito.

A differenza di altre fusioni derivate dal processo d’integrazione europea, il superamento delle frontiere è stata la prova di maturità più alta nella gestione comune, perché ha avuto immediati riflessi nelle nostre abitudini. Poter andare e tornare da un Paese senza essere controllati ha cambiato l’approccio psicologico agli spostamenti dei cittadini europei nel giro di pochissimi anni. Considerati i trascorsi storici del Continente, almeno sulla carta non sarebbe roba da poco.

I casi di sospensione temporanea (prevista dalla Convenzione per cause eccezionali) sono stati molteplici e quasi sempre per ragioni di sicurezza legati ad eventi importanti (summit politici, manifestazioni sportive, ecc…).

A partire dal 2005 però (il primo caso è la Francia) e con un’accelerazione negli ultimi due anni fino al caso dell’Austria, si sono moltiplicati gli “strappi” alla Convenzione dovuti ad altri tre fattori: criminalità, terrorismo e immigrazione clandestina. Le sospensioni, seppure previste come temporanee, non sono più messe in atto sul principio dell’eccezionalità di un evento, ma su quello dell’eccezionalità di una minaccia. Nel primo caso è facile prevedere la durata del provvedimento, nel secondo no.

Da qui la decisione di Vienna di provvedere al riposizionamento di infrastrutture (barriere, segnaletica e spazi per i controlli) lungo il confine con l’Italia. L’Austria in altri termini ha deciso di mettere un filtro col Bel Paese e la cosa ha scatenato polemiche.

In realtà il dibattito sulla “fortificazione” del Brennero sembra per lo più pretestuoso e ideologico. Vienna tiene a precisare che fatto salvo il sacrosanto diritto di salvaguardare il suo territorio, si difende dalla cattiva applicazione degli altri (noi...) della Convenzione di Schengen, nata sulla fiducia tra Stati firmatari.

I Paesi europei sono come stanze di un appartamento. A prescindere dal prestigio, ciascuna è posizionata secondo la planimetria. Solo alcune stanze però sono dotate di porta verso l’esterno. L’Italia è una di queste.

La responsabilità legata a Schengen è tutta qui: gli oneri maggiori ricadono su quelli che come nel nostro caso hanno una forte esposizione verso nazioni esterne alla Convenzione, all’Unione e addirittura al continente.

Fra tutti gli Stati aderenti l‘Italia è tra quelli con la porta d’accesso più grande vista la vastità delle coste e automaticamente tra i più impegnati non solo con se stessi, ma con tutto il sistema verso cui non ci sono più filtri.

L’Austria in sostanza non rinnega Schengen, ma pone il filtro che Roma ha tolto verso l’esterno nell’unico punto in cui geograficamente può metterlo: il confine con l’Italia.

Tutta la retorica dai titoli melensi sul tipo “il Brennero torna a dividere…” è pastura per finti coscienziosi.

Ammesso che quello attuale sia il modello di Europa su cui costruire un futuro, è evidente che per averne uno ci siano delle regole da rispettare. Se Schengen dovesse saltare, la colpa non sarebbe dell’Austria quindi, ma dell’Italia che ha tenuto fede solo al primo dei due impegni: aprire i confini con i Paesi aderenti alla Convenzione; chiuderli meglio con tutti gli altri.

Il carico ideologico posto nella polemica contro il “muro” austriaco appare non solo ipocrita, ma anche difficile da comprendere soprattutto se a farsene portavoce sono i detrattori della globalizzazione economica.

Il processo di globalizzazione culturale è presumibilmente un supporto non indifferente all’unificazione dei mercati su scala globale. Se ha un senso l’equazione stessa cultura=stessi bisogni, non è difficile capire che uno stesso modello socio-economico diffuso su larga scala, faccia comodo proprio ai grandi gruppi d’interesse globali.

Non sarà la dogana del Brennero a impedire l’omologazione delle future generazioni verso il semplice rapporto tra domanda e offerta, questo è evidente; la rimozione di ogni filtro tra Stato e Stato però ne aumenta con ogni certezza la velocità.

Nasce quindi un dubbio: il rifiuto ideologico della frontiera è davvero la soluzione migliore ad un mondo appiattito alle logiche delle multinazionali o ne è uno dei portoni d’accesso?

La riflessione è d’uopo.

In ogni caso rimane il rammarico per un’occasione persa. Se i sogni di una famiglia di popoli unita in un solo blocco si sono via via sviliti nei corridoi grigi dei palazzi di Bruxelles, le liti di condominio dovute a incompetenze e cattive gestioni sono la loro continuazione più triste. L’Italia in questo senso ha colpe gravissime.

(Foto:DO)