Afghanistan: bandiera bianca?

(di Andrea Cucco)
02/02/19

La richiesta valutazione per ritirare entro l'anno i militari italiani dall'Afghanistan fatta dal ministro Trenta ha due facce: quello della sconfitta e – finalmente (ma nessuno lo ammetterà) – quello del suo pubblico riconoscimento.

Cosa è invece stato oggetto di polemica negli ultimi giorni? La forma.

I risvolti politici con un ministro degli esteri che risponde “non ne sapevo niente” e quello della difesa che replica “Se chiedo al COI (Comando operativo di vertice interforze, ndr) di valutare, e sottolineo valutare, l’avvio di una pianificazione per il ritiro non credo di dover informare il ministro Moavero, perché rientra nelle mie prerogative...”, hanno distolto l’attenzione dal vero problema di fondo.

Il fallimento in Afghanistan non è assolutamente una novità dell'ultim'ora. Ci sono voluti tre lustri e impegno per rovinare in intere generazioni di afghani un sogno: quello di smettere di ammazzarsi tra loro.

Per quanto si cerchi di abbinare l'uscita del ministro della Difesa alle trattative in corso con leader talebani in Qatar la verità è che, da almeno 10 anni, l'Afghanistan è fuori controllo.

Si fa presto a dire "talebani"...

Le trattative statunitensi con i talebani e le relative “evoluzioni in corso” sono una presa in giro. Certi fanatici assassini non rappresentano che una minoranza all’interno di una minoranza della popolazione. In Afghanistan, d’altra parte, tale abuso è una tradizione: i pastho, tribù cui appartiene buona parte dei talebani, da secoli monopolizzano (lucrando ed ottenendo posizioni privilegiate) i contatti con gli stranieri.

Oggi quella minoranza si dimostra talmente scaltra da riuscire a gestire "ufficialmente" sia il potere governativo che l’opposizione armata sul terreno, una realtà ben più complessa.

Cosa è stato fatto (in estrema sintesi) a livello internazionale nel Paese?

Riversati miliardi di dollari: parte dei quali hanno preso (o ri-preso) la via di Paesi del Golfo.

Esportata democrazia? Sono stati puntualmente frodati gli elettori. Gli afghani hanno spesso messo a rischio la propria vita per recarsi ai seggi e hanno visto “gestito” il risultato più gradito da altri (v.articolo).

Abbiamo ottenuto un tornaconto economico? Le missioni dal 2001 sono costate quasi 7 miliardi.

L'Italia ha visto scorrere il sangue di 53 militari ed una cooperante, oltre a quello di centinaia di feriti ed invalidi permanenti.

Dovremmo dunque restare in Afghanistan?

Anni addietro ho incontrato un “sopravvissuto” nella valle di Bamiyan. Qualche anno prima del 2001 il suo piccolo villaggio era stato raggiunto da un gruppo di talebani. Il villaggio era di credenti sciiti, dunque per i sedicenti studenti coranici “tremendi infedeli”. I comandanti talebani erano comunque stati estremamente rassicuranti al loro arrivo: “Siamo tutti fratelli, non dovete temere nulla!”.

L’uomo, scettico, durante la notte era fuggito sulle montagne assieme alla moglie, i figli e gli anziani genitori.

La mattina seguente 140 persone tra uomini, donne e bambini furono brutalmente massacrate. Ed era un villaggio di poche case.

Colpa della religione? Scusa banale ed abusata: furono depredati tutti gli averi delle vittime. Alla domanda “se tornassero combatterebbe?”, l’anziano mi rispose che “uccidere un uomo significa rinnegare tutto ciò in cui credo!”.

Ecco perché siamo in Afghanistan. Mi dissi allora.

Ecco perché dovremmo rimanere. Mi dico oggi.

Un soldato non chiede di vivere senza rischi ma - se necessario - di morire per una giusta causa.

Nella foto (U.S. Marine Corps) soldati afghani e un marine mostrano una bandiera talebana