Intervento militare turco in Iraq reputato illegittimo

(di Giuseppe Paccione)
14/03/17

È ben noto il ruolo importante che ha la Turchia nello scacchiere mediorientale, soprattutto in due ampi territori come quello della Siria e dell’Iraq, uscendo soventemente dall’ottica giuridica e politica. Difatti, proprio pochi mesi fa, cioè a dire nell’ottobre del 2016, le autorità governative di Ankara avevano dispiegato le proprie truppe militari nella cittadina irachena di Bashiqa, a 12 km nord-est dalla città di Mosul, sotto il controllo del gruppo terroristico che ha creato nel giugno 2014 lo Stato islamico o DAESH. Oggi, questa città è stata quasi liberata dalle forze militari irachene. Non sono mancate accese e pesanti proteste del governo iracheno che richiamava il governo turco a ritirare il suo esercito dal territorio dell’Iraq. Ora, è d’uopo comprendere se l’intervento dello Stato turco nel nord dell’Iraq rientri nella fattispecie del fondamento giuridico, cioè a dire se esso sia stato rispettoso del criterio della liceità circa il suo intervento in un altro Stato senza l’assenso di quest’ultimo.

Innanzitutto, andrebbe notato che, sebbene ci siano state gravi violazioni dei diritti dell’uomo durante la guerra civile in Iraq, de iure ogni motivazione non può essere accolta come giustificazione a favore degli interventi e violazioni della sovranità e integrità territoriale di uno Stato. Da ciò, l’intervento militare turco nel territorio iracheno è reputato come una vera e propria violazione del principio del rispetto che si deve all’integrità del territorio e all’indipendenza politica di ogni Stato, che comprende persino l’inviolabilità del territorio dello Stato stesso.

Su quest’ultimo punto, si era già espressa la Corte Internazionale di Giustizia nel parere consultivo, in conformità al diritto internazionale, della dichiarazione militare d’indipendenza relativa al Kosovo del 22 febbraio 2010, la quale aveva delineato il fatto che il principio dell’integrità territoriale, che costituisce un elemento importante dell’ordine giuridico internazionale e che è rafforzato dall’inibizione dell’impiego dell’azione di forza armata nel diritto internazionale consuetudinario e dall’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite – secondo cui i Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o all'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite –, è un criterio fondamentale dell’ordinamento internazionale e il suo fine viene confinato nell’ambito delle relazioni internazionali, evitando di pronunciarsi sul punto e ha asserito – sempre la CIG – che tale principio s’applica, per essere chiari, solo ai rapporti tra Stati e non a quelli tra Stato centrale e la sua provincia. Tra l’altro, sebbene l’intervento delle truppe turche, nella provincia di Mosul, abbia già un precedente di violazione del territorio iracheno, si evidenzierebbe che la giustificazione, presentata dalle autorità di Ankara, per aver violato il principio dell’integrità territoriale che ha condotto nel nord dell’Iraq, si fondava sul fatto che doveva difendersi dall’ISIS e dal PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan).

Sul piano storico, la città di Mosul faceva parte dell’Impero Ottomano, sino al termine del 1° conflitto mondiale, ma come risultato dell’occupazione di questa città da parte degli inglesi intorno al 1918, dopo aver scoperto la presenza di giacimenti di greggio nell’area, la questione che concerneva la soluzione della frontiera tra la Turchia e l’Iraq venne posta sul tavolo del Consiglio della Società delle Nazioni. Quest’ultimo sostenne che l’Iraq manterrebbe la città di Mosul e come risultato la neo repubblica turca, con riluttanza, acconsentì alla decisione, nel 1926, attraverso la firma con l’Iraq del Trattato della Frontiera. Infine, la Turchia fu persuasa alla pace appoggiando l’indipendenza dell’Iraq. In aggiunta, la stessa Turchia accordò di agire secondo il Trattato principalmente per la ragione che l’Iraq accettò di pagare un 10% di royalty sui depositi di petrolio su Mosul alla Turchia per 25 anni. Il Trattato fra il Regno Unito, l’Iraq e la Turchia, abbreviato nella dicitura di Trattato di Ankara, venne firmato proprio nella capitale turca il 5 giugno 1926 dalla rappresentanza del governo britannico e quella della neo repubblica turca per stabilire i confini politici fra l’Iraq e la Turchia e regolare i rapporti di buon vicinato.

Con la firma di questo accordo turco-iracheno, la Turchia lasciava definitivamente all’Iraq la maggior parte del territorio di Mosul, con una sola condizione cioè a dire quella di non discontinuità dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale dell’Iraq. A tal proposito, la Turchia asseriva che, sebbene l’unità nazionale e l’integrità territoriale dell’Iraq abbia subito delle spaccature ovvero è stata interrotta dagli atti terroristici dell’ISIS e dall’occupazione di gran parte del territorio del nord dell’Iraq, compresa la città di Mosul, la Turchia interveniva nel territorio di Mosul per combattere contro DAESH/ISIS, in quanto gli atti terroristici di questo pseudo Stato, nella zona di frontiera, continuavano a minacciare la sicurezza e la sovranità della Turchia. Inoltre, si ritiene che l’atteggiamento turco si fondava sulla dichiarazione, con tutti i mezzi in loro potere, dell’articolo 6 del Trattato di Ankara il quale statuisce che le Alte Parti contraenti si impegnano reciprocamente ad opporsi ai preparativi di uno o più individui armati con lo scopo di compiere saccheggi o il brigantaggio nelle zone di frontiera vicina e a prevenire che sia oltrepassata. In altre parole, la Turchia ritiene che la norma de quo consente alle truppe militari turche di intervenire nel territorio iracheno per garantire la sovranità e l’integrità territoriale dell’Iraq nel territorio di Mosul, che è maggiormente abitata dall’etnia di origine turca. La Turchia, inoltre, lega il proprio intervento per tutelare i propri parenti presenti nella regione. Da questo punto di vista, l’occupazione della zona di frontiera turco-irachena, come pure gli attacchi terroristici commessi al suo interno, potrebbe essere interpretato come un vero e proprio saccheggio o brigantaggio nell’area di frontiera, per l’appunto, turco-iracheno.

Ergo, si dovrebbe constatare che queste motivazioni non hanno un fondamento giuridico. In primo luogo, va tenuto presente che l’applicazione del Trattato del 1926 circa la condizione della non discontinuità dell’unità della nazione e dell’integrità del territorio iracheno non è parte pertanto del Trattato di Ankara come un accordo di frontiera internazionale. In secondo luogo, è d’uopo anche considerare il fatto che una larga interpretazione dell’articolo 6 di questo Trattato, al fine di conferire il diritto dell’intervento militare nel contesto territoriale iracheno, è incompatibile con i fini e gli scopi del trattato stesso. Tale interpretazione, difatti, non è conforme al senso ordinario tanto da essere dato ai termini contenuti nell’articolo 6 del Trattato di Ankara. In virtù di quanto è enunciato nell’articolo 31, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 1969, viene posto in rilievo che un trattato deve essere interpretato in buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto. Si può ritenere che ciascun modo di interpretare nettamente un accordo, che successivamente si tramuta in trattato, nell’ambito del diritto internazionale generale, dovrà tener conto di ogni aspetto della bozza del futuro trattato, dalle parole utilizzate, all’intenzione delle Parti e i fini del documento specifico, per cui diviene chiaro che non sia assolutamente possibile non tenere in ponderazione ognuno di questi elementi. Da qui, non sarebbe corretto ritenere che la norma, contenuta nell’articolo 6 del Trattato di Ankara, consenta l’intervento di truppe militari di Stati parti nelle questioni interne o domestiche di altri Stati, giacché i trattati sulle frontiere fra gli Stati sono stipulati e che si basano sul principio del rispetto reciproco della sovranità, dei diritti ed interessi delle Parti. Ciò sta a indicare che gli accordi riguardanti le frontiere non possono essere interpretati in senso lato a favore di una Parte del trattato. In parole povere, un’ampia interpretazione delle disposizioni previste nei trattati concernente i confini o le frontiere fra due o più soggetti di diritto internazionale, id est gli Stati, possono cagionare lo sconfinamento delle regole stesse del diritto internazionale.

Tuttavia, la violazione da parte delle forze armate dello Stato turco della sovranità appartenente allo Stato iracheno e della sua integrità territoriale, attraverso l’intervento coercitivo armato nella città di Mosul, potrebbe essere affrontato nell’ambito della razionalità politica. Le autorità del governo di Ankara avevano dichiarato che il loro Paese stava usando l’esercito per proteggere i propri interessi politici ed economici nella città di Mosul, nel nord iracheno, mentre combattevano i jihadisti dell’ISIS e il PKK. Sul piano prettamente politico, la città di Mosul è molto importante anche per il governo turco, non solo per l’ISIS, essendo ubicato nel territorio iracheno, ma anche per la presenza del PKK in questa zona che, realmente, minaccia la sicurezza nazionale turca. Si è posto in risalto il fatto che il PKK ha de facto stabilito un’amministrazione militare in Sinjar (piccola città nell'Iraq nordoccidentale), dopo essere entrati per combattere lo Stato islamico. In sostanza, la principale preoccupazione delle autorità governative turche era quella di colmare un vuoto del potere emergente nell’Iraq del nord da parte del PKK. In altri termini, sebbene la piccola città di Sinjar è stata liberata dall’occupazione dell’ISIS, il governo di Bagdad resta pur sempre privo di un potere per poter gestire tale regione, anche se, in questi ultimi tempi, le forze militari irachene stanno duramente reagendo contro DAESH o ISIS, attore non statale.

Nell’ottica del diritto, la stessa Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha indicato, nella ben nota sentenza sullo stretto di Corfù del 1949, i cui attori furono la Gran Bretagna e l’Albania, che il presunto diritto di intervento è la manifestazione di una politica di forza, così come è avvenuto in passato, che ha dato luogo a una serie di abusi e che non può trovare una posizione all’interno della struttura del diritto internazionale. Di conseguenza, il rispetto da parte degli Stati indipendenti che vi deve essere per la sovranità e l’integrità dell’altro Stato costituisce il fondamento dei rapporti fra Stati. Si sosterebbe, pertanto, che, dal punto di vista politico, l’intervento delle truppe militari turche nella città di Mosul, sebbene sia stato posto dinanzi alle azioni terroristiche dei militanti separatisti del PKK per molti anni, non può essere coperto dall’accettazione come motivo di giustificazione di tale intervento. In questo caso, invece, il diritto internazionale inibisce tale intervento sotto ogni circostanza. Va anche detto che il governo iracheno si trova nell’incapacità di dover intraprendere ogni azione nei confronti del PKK che ha occupato quel lembo territoriale iracheno nell’aerea del Sinjar, violando la sovranità assoluta dello Stato iracheno. In sostanza, il consolidamento del PKK, presente sul territorio iracheno, sta a indicare il fatto che la sicurezza nazionale dello Stato turco sarà inevitabilmente oggetto di minaccia. Da quest’angolatura, si può sostenere che l’intervento di forze armate della Turchia nel territorio dell’Iraq, basato sul diritto di legittima difesa, può essere motivata dall’incapacità e mancanza di volontà dello Stato di residenza iracheno di intraprendere misure necessarie per soffocare e prevenire le minacce che provengono da gruppi armati che rientrano nella sfera degli attori non statali. Tuttavia, come la CIG ha ribadito, non vige alcuna norma del diritto internazionale generale che consenta un altro Stato ad esercitare il diritto di legittima difesa in virtù della propria valutazione della situazione. Ciò sta a significare che la CIG ha rigettato il c.d. criterio della mancanza di volontà o dell’incapacità, che non rientra nell’ottica del diritto internazionale consuetudinario.

(foto: Türk Silahlı Kuvvetleri)