Indagato il comandante generale dei carabinieri Del Sette: non sparate sul principio di presunzione di non colpevolezza

(di Marco Valerio Verni)
23/12/16

È trapelata nelle ultime ore la notizia secondo cui vi sarebbe anche il nome del comandante generale dei carabinieri, Tullio Del Sette (nella foto, l'ultimo a dx), tra le persone indagate nell'inchiesta della procura di Napoli sugli appalti Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione).

Stando almeno da quanto riportato da il Fatto Quotidiano, l’alto ufficiale sarebbe stato iscritto nel registro degli indagati per rivelazione di segreto d'ufficio: nella fattispecie, per i magistrati che conducono l’inchiesta, egli avrebbe avvertito i vertici Consip sui rapporti da tenere con alcuni imprenditori, fra i quali il top manager napoletano Alfredo Romeo, indagato per corruzione con il dirigente Consip Marco Gasparri, il quale, a sua volta, avrebbe ricevuto delle somme di denaro per aiutare il primo (Romeo) in alcune importanti gare d'appalto, come quella sul Facility management, Fm4, bandita nel 2014 ma poi aggiudicata ad un'altra azienda.

Non si entrerà qui nella vicenda, non avendo né la documentazione, né, per gli aspetti che si spiegheranno, interesse a farlo: ma si insisterà, ancora una volta, su un principio cardine del diritto in generale e della nostra Costituzione in particolare, ossia quello della presunzione di non colpevolezza fina a sentenza di condanna definitiva.

Intanto, cogliamo una evidenza: tutti possono finire sotto indagine, dal privato cittadino, all’imprenditore, al funzionario pubblico, al politico, allo stesso magistrato, al carabiniere, come nel caso in questione. Dimostrazione che, tutto sommato, la giustizia, quando deve fare il suo percorso, è (forse non sempre, ma tendenzialmente sì) uguale per tutti.

E per tutti valgono, o dovrebbero valere, le garanzie previste dall’ordinamento, sia interno che internazionale: in primis, come anticipato più sopra, quello della presunzione di non colpevolezza fino a sentenza (di condanna) passata in giudicato.

Come già sottolineato su questa testata (v.articolo) all’indomani della indagine che vide coinvolto l’allora capo di stato maggiore della Marina, ammiraglio Giuseppe De Giorgi, è nell’animo di certa stampa, oltre che di parte dell’italica popolazione, gridare alla colpevolezza di una persona prima ancora che si sia arrivati - almeno - ad una sentenza di condanna in primo grado.

Invasati da un clima di caccia alle streghe, condito spesse volte da una certa “invidia sociale”, oggi si getta sulla graticola una persona, per il semplice fatto che essa sia stata destinataria di un avviso di garanzia, o di un avviso di conclusione delle indagini preliminari, o - peggio ancora - per un rinvio a giudizio, senza per nulla considerare la valenza fisiologica e processuale di questi atti e, soprattutto, il fatto che, generalmente, è nel dibattimento, nel giusto contraddittorio tra accusa e difesa, che si formano le prove e si arriva ad un giudizio sulla colpevolezza o meno di una persona.

È vero che lo stato di salute del nostro Paese abbia esasperato gli animi - compreso quello di chi scrive - e che - comprensibilmente - quando si parla di denaro pubblico, di conseguenza, si alzi l’asticella dell’attenzione e della mal sopportazione per gli eventuali sprechi, favoritismi, corruzioni.

Così come è vero che, in Italia, per poter arrivare al famoso “passaggio in giudicato” di una sentenza occorra spesso aspettare che si svolgano i tre gradi di giudizio previsti dall’ordinamento, e che questo molte volte avvenga in un arco di tempo lunghissimo, ma, in linea di massima, sarebbe sempre e comunque sbagliato supplire alle carenze di un sistema, diminuendo la tutela dei diritti.

Altra cosa, invece, è dire che (soprattutto per incarichi apicali o politici) si dovrebbe ritenere opportuno un passo indietro da parte di chi subisce un processo penale: si potrebbe essere d’accordo, a patto che ciò non avvenga, quantomeno, prima di una sentenza di condanna, essendo assurdo pretendere una cosa del genere in momenti anteriori del suddetto (processo), quando cioè sia ancora tutto in divenire.

Accusa e difesa devono essere lasciate libere di svolgere la propria funzione, senza che il loro ruolo venga caricato di altri significati che non possono e non devono appartenergli: diversamente, si finirebbe - come pur accade - con il pregiudicare, ad esempio, la stessa serenità di lavoro delle Procure, i cui atti, a volte, vengono oltremodo impregnati di una importanza extra-processuale (o, volendo, processuale, che tanti magistrati inquirenti non vogliono e non cercano - fedeli al loro ruolo ed alla loro funzione) facendo sì che alcune di esse (Procure) finiscano con il venir tacciate di essere “politicizzate” o di rispondere ad esigenze di “giustizia ad orologeria”.

Non è così, o, almeno, non lo è nella maggior parte dei casi: ma bisogna avere la pazienza di far lavorare le parti processuali, come si diceva, nel giusto clima, senza gridare alla colpevolezza di qualcuno prima di una sentenza - si ripete - almeno di primo grado che vada in quella direzione.

Perché il problema, se così si continuasse a fare, sarebbe anche un altro: il rischio di delegittimare il lavoro non solo degli avvocati difensori (altrettanto importante rispetto a quello della pubblica accusa, a dispetto del convincimento di qualcuno, frutto del più becero oscurantismo giudiziario), ma anche quello della stessa magistratura giudicante che, all’esito di un giusto processo, svoltosi nel contraddittorio delle parti di cui si diceva più sopra, giunge in un discreto numero di casi ad accertare una versione dei fatti diversa da quella ipotizzata nei capi di imputazione originari, magari con sentenze di assoluzione anche clamorose. Come non ricordare, al riguardo, le dichiarazioni del vice presidente del C.S.M. Giovanni Legnini, all’indomani di quelle - assoluzioni - famose e piuttosto recenti avutesi in alcuni filoni del processo legato a Mafia Capitale: ossia maggior precisione nelle indagini e - attività spesso dimenticata - ricerca degli elementi di prova anche a favore dell'indagato.

Si dice spesso, quando si accusa di un reato qualcuno, che la non conoscenza della legge non giustifichi la commissione del suddetto (reato: ignorantia legis non excusat): ebbene, anche non conoscere il significato degli atti processuali, e degli istituti (anche costituzionali: sì, proprio di quella Magna Charta di cui si è da poco finito di parlare così tanto) ad essi sottesi, costituisce ignoranza… e, soprattutto per le conseguenze nocive che essa possa portare ingiustamente ad una persona, specialmente in termini di discredito sociale, essa è davvero esecrabile. E ciò sia quando, a subirla, sia un politico, sia quando sia un pubblico funzionario, o un privato cittadino, o un… carabiniere.

(foto: presidenza della repubblica)