Il Failed-State e la politica dell’intervento militare

22/02/15

Come tutti sanno ad oggi non è possibile concepire il conflitto armato come del Medioevo. Se infatti un tempo la frase hobbesiana Homo homini lupus rendeva giustizia ad una impostazione geopolitica che era quella maggioritaria nelle terre emerse del globo, oggi, con la prevalsa del brocardo ubi societas ibi jus, anche le guerre sono rigidamente regolamentate ed una violazione delle norme potrebbe comportare gravissime responsabilità sul piano penale interno ed internazionale.

È però sempre così?

Il punto, per poter pensare ad indirizzare un attacco bellico al terrorismo dello Stato Islamico (ISIS), è definire e ricercare gli elementi che consentano, nel rispetto delle norme internazionali del diritto dei conflitti armati e del diritto internazionale generale pubblico, un attacco armato.

Lo Stato ha infatti una libertà ristretta nel condurre le ostilità durante i conflitti armati, e ciò viene disposto per poter limitare gli effetti negativi che la guerra generalmente ha, specie sui civili. La legislazione di guerra dello Stato italiano risale al 1938 ed è contenuta nel Regio Decreto 8 luglio 1938, n. 1415. Oggi, l’applicazione della legge di guerra è ordinata dal Presidente della Repubblica durante i conflitti armati internazionali, ma può altresì essere applicata - fuori da tali situazioni - se è nell’interesse dello Stato. Contestualmente - o con atto separato - la Costituzione, agli artt. 78 e 87, prevede che possa essere decretato lo stato di guerra ai fini dell’applicazione della legge penale militare di guerra. La massima parte delle disposizioni del titolo II di questo asset normativo ripercorrono i contenuti delle convenzioni dell’Aja del 1899 e, in virtù del disposto normativo art. 10 della Costituzione italiana, sono vincolanti in quanto diritto internazionale generale. Oggi in gran parte questi costrutti normativi risultano essere superati ma l’hard core rimane attuale.

L’art. 25 della legge di guerra individua la definizione dei soggetti intervenienti in un’azione bellica. I legittimi belligeranti sono definiti quali le forze armate regolari comprese le milizie ed i corpi volontari che le costituiscono o ne fanno parte. Sono sottoposte ad un responsabile-capo, indossano un’uniforme o sono munite di un distintivo fisso comune a tutti i membri e riconoscibile a distanza, portano apertamente le armi non celandole e rispettano gli usi e le leggi della guerra. Di contro i combattenti illegittimi vengono definiti come la parte residuale degli attori, ossia coloro che non rientrano nelle formazioni considerate legittime e che compiono atti ostili contro le forze armate italiane divenendo dunque puniti secondo l’art. 167 del codice penale militare di guerra (c.p.m.g.). L’utilizzo di mezzi bellici, quindi il diritto di partecipare alle ostilità, spetta unicamente a coloro i quali possano ritenersi legittimi belligeranti.

Affermato tale doveroso cappello introduttivo occorre ora esaminare le possibilità che il diritto internazionale offre allo sviluppo di attacchi bellici. Il cardine della disciplina muove dalla generale volontà di rendere residuale il ricorso alla violenza. C’è però da specificare come l’uso di questa, in guerra, sia sempre lecito qual ora stia nei limiti imposti dalle necessità militari non dovendo mai arrecare sofferenze superflue, danni, distruzioni inutili, uccidere o ferire un nemico allorquando questo si sia arreso sine condictiones. Un esempio, in ragione di quanto appena detto, lo troviamo in una norma in materia di bombardamento di centri abitati ed edifici che impone di tenere sempre conto del danno al quale viene esposta la popolazione civile ponendo assoluto divieto all’azione che abbia il mero scopo di colpirla, ovvero danneggiare o distruggere beni che non manifestano un interesse militare.

A quelli che vengono comunemente detti “reati di guerra” si applicano le cause di giustificazione della legge ordinaria e della legge marziale. A tale uopo occorre spedificare cosa sia una causa di giustificazione. Essa può definirsi la situazione in cui, al verificarsi di talune condizioni, il compimento di un atto che normalmente sarebbe reato non viene colpito dalle norme sanzionatorie dell’ordinamento giuridico. Viene dunque esclusa l’antigiuridicità del fatto in quanto la giustificazione risiede nella mancanza del danno sociale provocato dall’atto stesso. La prima tra tutte è la difesa legittima, prevista all’art. 42 del codice penale militare di pace (c.p.m.p.) - essendo infatti prevista in forma specifica nel codice militare non si applica la similare civile dell’art. 52 c.p. La formulazione vuole che un reato non sia punibile se commesso da un soggetto che era costretto, per necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale ed ingiusta, a porlo in essere purché vi sia una proporzionalità tra attacco e difesa.

L’ordinamento penale militare vede come violenza l’omicidio - in tutte le sue forme compreso il tentativo - le percosse, le lesioni e qualsivoglia altro tentativo di offendere con le armi (art. 43 c.p.m.p.). La connotazione è dunque specifica e differisce dal costrutto dell’art. 52 c.p. non essendo contemplata l’ipotesi del pericolo: la violenza dovrebbe dunque essere in atto escludendo l’applicabilità della scriminante all’atteggiamento minaccioso. Invero la Corte Costituzionale, nella sentenza 11 giugno 1987, n. 225, ha precisato come l’art. 42 c.p.m.p. non escluda la legittimità di una reazione ad un’azione che si sta’ verificando riferita alle situazioni di pericolo derivanti dal tentativo di offesa. Tale impostazione giurisprudenziale consente dunque la non punibilità del militare che faccia uso necessario e proporzionato della forza per reagire ad un attacco che si profila come imminente. In tema di violenza, il citato art. 43 c.p.m.p. parla di “necessità di respingere” consentendo dunque che la reazione possa essere diretta anche verso un atto aggressivo che non si sia ancora direttamente riversato sul militare ma che comunque esprima una considerevole carica offensiva. Ad essa correlata è la scriminante putativa: in questo caso il pericolo non sussiste ma è supposto dall’agente sulla base di un errore scusabile nell’apprezzamento delle circostanze di fatto. È una valutazione che deve muovere casu casu ed in concreto.

Sicuramente, d’ogni buon conto, l’alto numero di attacchi suicida e l’impiego di tattiche di guerriglia da parte dell’avversario, esprimono una minaccia che, individuata in forma concreta, consente il passaggio alla forza letale. Ultima causa di giustificazione che dobbiamo analizzare per poter avere un ben definito quadro nell’attuale contesto sociale è quella di cui all’art. 44 c.p.m.p. meglio conosciuta come lo stato di necessità in virtù del quale non è punito il soggetto che commette un fatto diversamente costituente reato nel caso in cui vi sia stato costretto dalla necessità di impedire fatti che comprometterebbero la sicurezza. Tale norma si estende ad un nucleo aperto di reati abbracciando tutte le ipotesi di concreto ed effettivo pericolo.

In generale, dunque, l’uso della forza da parte del personale italiano è consentito per difendere sé o altri, nell’ipotesi di soccorso difensivo, ovvero in caso di attacchi o minacce di attacchi imminenti e contro coloro i quali siano sul punto di compiere un atto in grado di mettere in pericolo la vita o l’integrità fisica di un essere umano.

Esaurito tutto il quadro normativo oggi applicabile alle operazioni di guerra non resta che trarre le debite conclusioni e capire cosa i militari italiani possano o non possano fare nell’attuale contesto geopolitico della Libia e dell’avanzata del terrorismo di matrice islamica.

Per poter attuare un’operazione militare anzitutto deve esserci una ragione ben precisa che colloco con un grado di rilevante oggettività - traendo elementi probatori dallo scenario mondiale - nella missione di smantellamento definitivo del terrorismo islamico. Se oggi è vero che la porta ci viene aperta in Libia occorre definire la ragione per cui l’Italia o una coalizione di Stati terzi possa entrare e combattere in un territorio in cui non esercita la sovranità. Pur essendo giuridicamente corretto correre in ausilio di uno Stato che grava in condizione di rilevante necessità, una motivazione a supporto la possiamo assurgere nello status di Stato fallito in cui oggi versa la Libia. Questo Paese, infatti, ad oggi ha perso il controllo fisico di alcune delle sua aree territoriali causato dall’assenza di un potere centrale forte ed efficace; la criminalità è diffusa e si stanno sviluppando quotidianamente fenomeni di massa di movimento di rifugiati. Se non esiste una vera e propria definizione di cosa sia uno Stato fallito, corre in supporto il pensiero di Max Weber il quale, parlando dello Stato di successo, lo definiva come quello in grado di mantenere il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica. Nel momento in cui tale potere viene rotto o messo in dubbio tramite la presenza del terrorismo, la stessa esistenza dello Stato diviene dubbia e lo Stato diviene fallito. La Libia sta’ vivendo questa situazione di collasso e non appare in grado di far fronte, in termini assolutistici e definitori, al pericolo rappresentato dal terrorismo di matrice islamica di Isis e al-Qaeda (organismi sì in conflitto tra loro sulla questione del Califfato ma che stanno perseguendo un obiettivo comune ravvisato nella distruzione delle roccaforti occidentali, come già ebbi modo di dire in un intervento in occasione dell’azione terroristica al settimanale Charlie Hebdo).

Oggi un attacco militare da parte non solo dell’Italia ma dei Paesi europei, dell’Egitto e della Russia - che risultano gli obiettivi più delicati nell’ottica del predominio dei fondamentalisti - è da ritenersi indispensabile, ancor più che legittimato dalla condizione di legittima difesa, sussistendo un concreto pericolo ormai prossimo a divenire realtà, e di stato di necessità, essendo in gioco la sopravvivenza e le nostre libertà tanto duramente conquistate. I soggetti che stanno agendo nel regime del terrore applicano un concetto di Islam ben differente da quello scritto nel Corano, una distorsione convenientistica alla luce di profitti economici che questi gruppi cercano di ottenere con la loro guerra di espansione (chiarificatore è stato l’intervento di pochi giorni fa della regina Rania di Giordania). Se la soluzione delle Nazioni Unite vuole essere quella diplomatica, ancora una volta dovrà aggiungere al suo già nutrito medagliere un clamoroso fallimento. Mi chiedo dove stia il corpo diplomatico dell’Isis o di qualsivoglia associazione per delinquere che fa del suo obbiettivo la distruzione di massa. L’unica possibilità che oggi noi abbiamo di fermare l’avanzata dilagante di questi veri e propri folli è arginare la situazione interna, definirla, ed intanto muoversi sul fronte estero.

Oggi la guerra è già innescata ma i confort non ci fanno ancora capire bene quale sia la situazione reale. Ogni barca che approda in Italia può portare con sé - secondo fonti di agenzia - almeno dieci soggetti affiliati a cellule terroristiche esistenti.

L’unica soluzione che reputo idonea è quella di muoversi su due fronti. Anzitutto occorre porre un blocco navale e non consentire più ad alcuno di entrare come rifugiato nelle terre europee in virtù dell’effettivo pericolo nazionale che si delinea nell’impossibilità di definire con certezza se i soggetti non siano, al di là di ogni ragionevole dubbio, appartenenti a cellule terroristiche. Occorre poi mappare accuratamente tutti gli individui presenti nei nostri Stati - non solo immigrati - ed escludere ogni possibile collegamento con cellule IS e, nel solo caso di dubbio, procedere con la messa in sicurezza dei soggetti da possibili comunicazioni con altri affiliati. Unitamente a tutto ciò occorre muoversi sul terreno estero, in Libia ma non solo, per assicurare una vita dignitosa agli abitanti onesti di quelle terre e debellare il terrorismo alla radice.

L’Africa intera vive una situazione di stress da anni. Se oggi siamo arrivati al punto in cui siamo è perché non abbiamo mai avuto sentimenti di riguardo nei confronti del Continente Nero che, essendo alquanto ricco di materie prime, da diverso tempo è oggetto di attacchi massicci da parte dei fondamentalisti di al-Qaeda e Isis che così facendo accrescono il loro patrimonio. Oggi debellare il terrorismo si può, non è impossibile. Certo la via è lunga ed ostica, specie se pensiamo che non abbiamo mai smesso di approvvigionare le fonti di questi soggetti lasciandoli operare indisturbati per molti anni e fornendo loro - direttamente o meno - armi. Il primo punto sarà mettere in sicurezza i nostri territori, il secondo scovare le basi operative di queste organizzazioni non accontentandosi di arginare il pericolo perché questi soggetti si espandono a macchia d’olio.

Molti ritengono che sia sufficiente compiere metà sforzo. Sì, un salto corto è più facile di uno lungo, ma nessuno che voglia attraversare un fossato largo ne attraverserebbe solo metà. Essenziale sarà poi mutare la politica estera iniziando a sviluppare una particolare attenzione nei confronti dell’Africa e non renderla più una terra dimenticata perché il male si annida e si espande laddove può agire indisturbato.

Nicolò Giordana

(foto: Navy Seals / web / difesa.it / MM)